21 novembre 2024 , giornata per la vita caustrale. La testimonianza di suor Maria Benedetta, dal monastero di San Giovanni Battista di Subiaco

Può sembrare strano o forse no, ma spesso mi chiedo: «Che ci sto a fare in monastero?». Non è una domanda in chiave pessimistica, anzi, sono persuasa che sia salutare farsela per riallineare il percorso che si sta facendo con la meta da raggiungere. Credo che la risposta non sia così scontata perché quando si entra in monastero si è spinti dall’urgenza di rispondere ad un invito, ma solo col passare del tempo lo scopo di una vita claustrale si fa più chiaro. Mi sembra che uno tra i più importanti compiti del monastero sia quello di fungere da punto di riferimento, non in quanto modello di virtù o di bravura, ma in quanto indicatore dell’essenziale, del vero, del duraturo.

Probabilmente per la maggior parte della gente le claustrali sono perditempo, inutile zavorra della società, che al contrario di quanto fanno le suore di vita attiva, neanche hanno il coraggio di “sporcarsi le mani” con la gente, ma credo che in fondo in fondo, prima o poi il nostro stile di vita interroghi tutti.

Diciamo che in un certo senso la nostra vita funge da promemoria per ricordare al mondo che c’è un Dio, che in Cristo ci ha raggiunto, e che solo in Lui c’è salvezza.

È vero che ogni cristiano nel suo piccolo è tenuto ad annunciare questo, essendo stato investito con il battesimo del carisma profetico, ma senza dubbio alle comunità claustrali è stato affidato in modo particolare il compito di “segnaletica”, ce lo ricorda molto bene il patrono del nostro monastero, San Giovanni Battista, iconograficamente rappresentato proprio nell’atto di indicare.

Lui ha assolto in maniera eminente la missione di indirizzare la gente del suo tempo sulla strada giusta, quella che porta a Cristo, unico nodo di raccordo tra l’Umanità e Dio, solo in Lui infatti creaturalità e divinità si sono sposate, di conseguenza esclusivamente in un rapporto concreto e quotidiano con Lui ci è possibile accostarci a Dio.

Sappiamo che in tutti i tempi i profeti (che non sono essenzialmente coloro che fanno previsioni sul futuro, bensì quelli che parlano per conto di Dio) non hanno mai goduto di grande successo, perché in genere lanciano un messaggio che non è comodo, non è facile, non è di moda e quindi, in ultima analisi, non è gradito.

Anche il Dio indicato da Giovanni Battista non è piaciuto ai più, perché Cristo era molto fuori dall’idea che se n’erano fatta gli uomini del tempo. Un Dio che si fa uomo era uno scandalo, da evitare come la peste. Questo atteggiamento deve farci riflettere circa un grande rischio cui andiamo incontro oggi quando pensiamo di voler conoscere Dio, quello dell’aspettativa, forse il più grande ostacolo che ci impedisce il pieno accesso a Lui.

Durante il corso della vita continuamente ci facciamo idee sugli altri e ci creiamo aspettative, lo stesso facciamo nei confronti di Dio, è un istinto naturale, ma se non sappiamo controllarlo ci chiudiamo alla vera conoscenza di Lui oltre che degli altri.

A ben guardare infatti, molte persone concepiscono un Dio che somiglia più al genio della lampada che al Creatore di tutto l’Universo. Si fanno un’idea “magica” di Lui, non Lo pensano come Qualcuno da conoscere e dal quale lasciarsi conoscere, ma come una qualche vaga entità alla quale non dobbiamo nulla e che anzi dovrebbe esaudire i nostri desideri e soddisfare per l’appunto le nostre attese. Così la fede si trasforma in un self-service da cui si preleva ciò che si gradisce e si scarta il resto, coerentemente con la mentalità corrente secondo la quale solo ciò che appaga e gratifica facilmente è degno di essere preso in considerazione, la verità però, è che la fede “fai da te” è un’illusione, non esiste; con questo atteggiamento, magari non consapevolmente si cerca solo di sedare frustrazioni e insicurezze. Non si può ricavare nulla di buono da un approccio simile, quale soddisfazione ci può dare del resto, un Dio che non è altro che la proiezione del nostro io?

Allora ci rendiamo conto quanto sia importante proclamare che Lui è altro dai nostri bisogni, dalle nostre sicurezze, certo è comprensibile l’essere spaventati dall’idea di incamminarci su una strada, quella della vera conoscenza di Lui, molto meno chiara di quanto la vorremmo, deve guidarci però la convinzione profonda che Dio è Padre e non mancherà mai di guidare un’anima che desidera conoscerLo veramente, perché è fedele, anche quando l’uomo gli volta le spalle, non rinnega mai l’Amore per lui, desidera raggiungerlo ovunque si trovi, fosse anche al suo ultimo respiro.

Questo è il cammino che come monache ci siamo impegnate a seguire ogni giorno, perché mentre fungiamo da segnaletica per gli altri, dobbiamo vigilare per non sbagliare noi stesse la strada imboccando improbabili scorciatoie! Ma seppure succedesse, non bisogna spaventarsi ma riprendere il sentiero giusto con grande umiltà e fiducia, perché il nostro Dio non ci lascia mai, neanche quando non Lo sentiamo, si chiama Emmanuele, Dio con noi.

Maria Benedetta Galici, osb
Monastero di San Giovanni Battista in Subiaco