Vinci il male con il bene, nella verità e carità
Il cristiano è profeta, ossia porta in sé la presenza di Dio in virtù del santo Battesimo e al contempo è chiamato a dare testimonianza di tale presenza nella propria vita. Il principio, la Roccia su cui egli fonda questa esperienza è Gesù Cristo, il Figlio di Dio inviato dal Padre nella forza dello Spirito, per proclamare il Vangelo della salvezza.
Il Cristo per primo è il testimone verace del Padre e lo annuncia alle genti, a partire dal popolo dell’alleanza, «secondo verità nella carità» (Ef 4,15). «Misericordia e verità si incontreranno, giustizia e pace si baceranno», canta il salmista (Sal 84): ciò si realizza pienamente nel Cristo, il quale solo «conosce il Padre» (Mt 11,27) e vive perfettamente il suo amore. Come bene ha scritto Benedetto XVI, «in Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i nostri fratelli nella verità del suo progetto» (Caritas in veritate, § 1).
Dunque Gesù a buon diritto può proclamare che in lui si è compiuta la Parola di salvezza per l’umanità e farsi banditore del Vangelo, percorrendo le strade della Palestina e facendo ingresso nelle sinagoghe, quale “compimento della legge e dei profeti” che lì ogni sabato si leggono.
E questo ci rimanda alla prima lettura, in cui il profeta Geremia, figura del Cristo osteggiato, viene eletto da Dio come strumento della sua Rivelazione, per far giungere agli uomini una Parola che è «segno di contraddizione, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,35). Una Parola scomoda e scomodante le persone dai loro “rifugi umani”: una “parola” che scatena reazioni spesso ostili, perché smaschera l’uomo e gli pone dinanzi lo specchio della verità, dove è costretto a prendere consapevolezza dello smarrimento della sua innocenza e delle proprie brutture morali. Egli vede la sua miseria esistenziale: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9).
Invece di accogliere questo tempo di verità su se stesso come opportunità di conversione, spesso l’uomo non accetta, si gira dall’altra parte infastidito, si scaglia contro coloro che lo richiamano alla verità. Prima Geremia, poi Gesù, poi ancora succederà a Paolo. Tutti e tre sono esposti al pericolo della morte da parte dei loro connazionali, ma tutti e tre sono forti della “forza di Dio”: «Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti» (Ger 5,19).
Gesù, addirittura dall’inizio della sua predicazione, deve schivare la morte per mano dei suoi compaesani, i quali sono accecati dalla superbia e dall’invidia, che non li fanno rettamente giudicare a riguardo della sua persona, appiattendo la grazia di Dio alla condizione di “figlio del falegname”, e dall’ira incontenibile, con cui afferrano Gesù per condurlo fuori della sinagoga e gettarlo giù dal precipizio.
A questa carica d’odio Gesù – non senza prima avere richiamato i suoi interlocutori alla realtà della loro condizione spirituale infelice, di fronte ai precedenti positivi della vedova di Sarepta di Sidone e di Naaman il Siro – risponde con la “leggerezza dell’amore”, «passando in mezzo a loro» e riprendendo il suo cammino.
Il cristiano, a immagine del Cristo, è chiamato a rispondere a chi lo maledice con la benedizione e a pregare per chi lo osteggia (cf. Mt 5,39-46; Lc 6,27-35); a contrapporre all’odio violento e omicida di Satana e dell’uomo ingannato, la forza mite dell’Amore. «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21), perché solo in questo modo il male si sgonfia, l’aggressore viene disarmato, il Regno di Dio si instaura, la verità sull’uomo trionfa.
Come invita Paolo nel suo famoso capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi: di fronte a un’umanità che patisce la schiavitù dell’orgoglio, dell’egoismo, dell’individualismo, che la inoltrano nei deserti dell’amor proprio, della competizione con il prossimo e della cattiveria, in ultima istanza del “rinnegamento di sé stessa” – perché, a differenza del Bene che illumina, il male è menzognero e ingannatore sin da principio (cf. Gen 3; Gv 8,44) –, il cristiano, rinnovato dallo Spirito del Crocifisso Risorto, impugna l’arma benefica della Carità, l’Amore di Dio. Sforzandosi ogni giorno di essere “paziente”, senza respingere l’altro, portandone invece i pesi; di essere “benevolo”, nel riconoscimento dell’altro come di un dono da accogliere e valorizzare; di non essere “invidioso”, gioendo della fortuna altrui e favorendola; di non “gonfiarsi d’orgoglio”, vivendo in umiltà e rispettando il prossimo; di essere “disinteressato”, imparando a non mettersi al centro, ma sapendo operare delle rinunce per il bene altrui; di essere “amabile”, comportandosi con cortesia, stima, affetto verso l’altro; di “perdonare”, perché siamo tutti peccatori e figli di Dio; di essere “giusto e veritiero” con il prossimo, riconoscendone la dignità infinita e aiutandolo nella sua ricerca di Dio. In ultimo, tutto “scusando, credendo, sperando e sopportando”, in vista del superiore bene comune, che è la salvezza eterna delle anime per la gloria di Dio; sino a giungere al dono totale di sé a imitazione e con lo Spirito del suo Divino Maestro.
Solo in questo modo e con questo stile, vissuto nella quotidianità, la testimonianza del credente diventa profezia autentica della presenza, del Vangelo e della vocazione alla santità del Signore. Solo così l’uomo di Dio manifesta la solidità della Verità che porta dentro di sé, con cui desidera illuminare le coscienze e per la quale è disposto al “martirio” della Carità.
Non permettiamo, perciò, alla menzogna del male di prevalere conducendoci alla morte, ma diventiamo partecipi intimi e apostoli convinti di quell’Amore veritiero che ha il potere di salvarci e di salvare tanti nostri fratelli: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1Gv 3,14).
Don Franco Ferro,
vicario parrocchiale presso San Giuseppe Artigiano, Villanova di Guidonia