Commento al Vangelo per la Solennità della Santissima Trinità /B

Nel tempo pasquale, la Chiesa celebra il mistero della nostra redenzione con la morte e risurrezione del Figlio di Dio fatto uomo. Questo tempo, appena concluso con la solennità della Pentecoste, si prolunga attraverso la missione della Chiesa.

Infatti, oggi, nel riprendere la seconda serie delle domeniche del tempo ordinario, la liturgia ci ricorda, con la solennità della Santissima Trinità, l’identità del nostro Dio: uno e trino. Ogni cristiano, dal battesimo, porta l’impronta di questa identità trinitaria.

Nel brano del Vangelo di Matteo 28, 16-28 proclamato in questa domenica, si rivela appunto l’autentico volto di Dio Padre Figlio e Spirito Santo con il quale l’uomo entra in comunione e di cui riceve indole nella Nuova Alleanza. Si tratta, in effetti, dell’ultimo incontro terreno di Gesù con i suoi apostoli, “ gli undici”. Matteo lo racconta con estrema sobrietà e essenzialità.

Un incontro preparato prima, poiché avviene “sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Un appuntamento importante per il Maestro poiché è il congedo in cui affida a questi discepoli la sua Missione. Ma i discepoli pure sono consapevoli del carattere speciale dell’incontro. Il loro atteggiamento manifesta uno stato d’animo particolarmente coinvolto: “ si prostrarono”, “però dubitarono”.  Hanno bisogno di essere rassicurati poiché non si deve più sbagliare dopo l’esperienza di tradimento, di rinnegamento e di latitanza con cui si sono trovati deludenti alla passione. Non ci si sente forse così nei momenti più importanti dell’incontro con il Signore? Con stupore l’uomo si sente colmato della grazia di stare in presenza dell’Onnipotente. Si prostra in adorazione e in contemplazione; ma nel contempo trema insicuro sentendosi irrimediabilmente indegno di tanta grazia. Eppure il Signore nella sua benevolenza e misericordia non ferma il suo disegno. Prende di nuovo l’iniziativa di “avvicinare” e di “parlare”. Perfino, affida la sua opera salvifica, malgrado la loro fragilità, ai discepoli.

Le parole del Maestro qui suonano solennemente come una investitura con tutto il suo divino potere. “Andate” dice con un imperativo che caratterizza d’ora in poi la vita e l’identità degli “undici”. Sono suoi apostoli, cioè inviati, ambasciatori. Inizia qui la missione della Chiesa, chiamata, con la forza dello Spirito Santo, a prolungare nel tempo l’opera stessa di Cristo, l’Inviato del Padre. Di questa missione, Gesù indica qui il contenuto e la modalità.

Due verbi esprimono il contenuto di questa missione: “andare” e “ fare diventare discepoli”. Andare: un verbo per esprimere quel movimento obbligato che deve compiere il discepolo per trasformarsi in apostolo, missionario, come segno di adorazione e di fede nell’unico Maestro. È Lui che comanda e invia. Prima ha invitato a venire dietro a Lui e ora chiede di andare oltre, verso gli altri, ma con uno scopo ben preciso. Questo movimento in avanti ha come finalità “trasformare in discepoli”, cioè comunicare ad altri ciò che si è diventati nel seguire Gesù. Il discepolo di Gesù non può fermarsi a se stesso senza contaminare gli altri con il dono ricevuto. In realtà è trasmettere ad altri quello che se stesso è diventato in Cristo ma trasformando se stesso in Gesù Maestro. Prima è Lui che trasforma la persona in suo discepolo ma poi il discepolo, senza diventare maestro, ne diventa il tramite affinché anche gli altri diventino discepoli Suoi. Infatti, si può dire che si tratta di una contaminazione come modalità di comunicazione e di insegnamento.

Quanto alla modalità con cui bisogna portare avanti questa missione, il Maestro raccoglie in due espressioni l’insieme dell’opera da compiere con il suo mandato: battezzare e insegnare. Battezzare è un rito ben conosciuto dai discepoli poiché hanno ancora fresco il ricordo del ministero di Giovanni Battista. Un rito di iniziazione imprime una nuova identità. Così l’apparire della formula trinitaria, in questo finale del racconto di Matteo, esprime già tutta la novità che prende il discepolo con questo rito. Tutto il Vangelo parla del Padre, del Figlio e dello Spirito ma separatamente. Qui finalmente viene proclamata la loro unicità, rivelando pienamente e apertamente Dio. “Battezzate nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”: in un solo nome e non in tre nomi. La vita del discepolo è quindi ancorata alla Trinità, che è l’Unico Dio che ci rivela Gesù. Grande è il mistero ed è insondabile. Per questo il discepolo deve ricevere insegnamento per entrare in esso, contemplando ciò a cui è ormai unito con la fede.

Infatti se Gesù dice “insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato”, significa che gli “undici” sono pronti ad entrare in questo mistero poiché hanno ricevuto da Lui l’insegnamento necessario. I nuovi discepoli, dopo una prima istruzione che li fa entrare nella sequela di Cristo, con il battesimo entrano a fare parte della vita stessa di Dio. Per essere adeguati a questa nuova vita devono effettivamente essere alla scuola del Maestro: imparare quello che Gesù ha insegnato agli “undici”. Per questo il Maestro è indispensabile perché questa missione avvenga. Sono inviati i discepoli ma mai senza di Lui. La promessa finale di Gesù è infatti la garanzia per i discepoli di portare avanti l’impegno lungo i secoli. Ancora oggi siamo chiamati anche noi  a prolungare quest’opera della salvezza che Gesù ha compiuto e alla quale, con la forza dello Spirito Santo, ha voluto associare i suoi discepoli: fare di tutti figli di Dio in Lui, morto e risorto.

Don Denis Kibangu Malonda,
parroco di Santa Maria Goretti in Villalba di Guidonia