Commento al Vangelo per la VI Domenica di Pasqua /C

Introduzione al tema del giorno
L’immagine della città pacificata domina la prima lettura, con la nuova Gerusalemme, descritta nelle sue mura, nelle sue porte e nei suoi basamenti. Tanti elementi simbolici per presentare la nuova situazione dell’uomo e la sua nuova relazione con Dio, introdotta dalla morte e risurrezione dell’Agnello. Una condizione che viene ripresa nel testo evangelico, nelle parole che Gesù lascia come testamento ai suoi, prima della sua partenza definitiva. Parole intense, che aprono lo spazio alla speranza: che anche nella città dell’uomo possano crescere germogli di consolazione e di pace, e che anche la Gerusalemme terrestre possa finalmente godere della pace che ha in Dio la sua origine e il suo fondamento.

Per leggere e comprendere
Il contesto in cui Gesù pronuncia le parole che ci sono offerte oggi nel vangelo può essere molto significativo per la loro stessa comprensione. Si tratta dell’ultimo lungo discorso, che avviene nella notte, prima della partenza definitiva di Gesù dai suoi. La notte è il tempo del buio, dell’angoscia, ma anche del riposo e dell’intimità. Prima della sua ora, Gesù rivolge per l’ultima volta ai suoi discepoli parole molto intime: per confortarli e sorreggerli, rassicurarli e spronarli. Il contesto della partenza offre un ulteriore motivo di riflessione, perché la situazione di partenza o di morte è il momento dei ricordi, ma anche delle consegne, delle volontà ultime che si vorrebbe rimanessero per sempre. In questa luce si comprende meglio il testo di Giovanni che ci sta davanti, anche tenendo presente il discorso sulla città di Dio, che i credenti sono chiamati a testimoniare in mezzo agli uomini.
Anzitutto Gesù invita i suoi a leggere l’assenza non come una disgrazia, ma come un’altra maniera di essere presenti: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui». È interessante osservare che, in questo luogo, Giovanni non utilizza il verbo menein / “rimanere” per dire che il Padre e Gesù rimarranno presso il discepolo che osserva la Parola, ma l’espressione “prendere dimora” (monè). Il termine greco monè (da cui “monastero”) è lo spazio dove ciascuno trova la sua dimora, il suo posto: uno spazio di gratuità e di libertà, di intimità e di pace. Se Gesù se ne va, non potrà più essere certamente dove i discepoli lo vedevano prima, ma sarà certamente – insieme al Padre – ovunque là dove essi saranno: sulle strade polverose dell’oriente e nelle città ellenistiche dell’occidente, dove si costruiranno le città e le case dell’uomo, dove ci si adopererà per la giustizia e la pace.
Un altro aspetto emerge prepotentemente dal testo: il tema del Paraclito che non solo avrà la funzione di consolare e dare forza ai discepoli smarriti dopo la morte di Gesù, ma anche quello di far ricordare e far capire il suo messaggio. Romano Guardini aveva compreso molto bene la funzione indispensabile dello Spirito nella chiesa, quando, sul letto di morte, lo invocava a rimanere tra noi, nei nostri ambienti che – diceva – «rimbombano di vuoto, quasi tu fossi lontano». Solo lo Spirito offre ai credenti la chiave per discernere le fattezze di Dio nella città degli uomini. Perché la fede non è occuparsi d’altro, ma occuparsi «altrimenti». La pace che Gesù dona, subito dopo aver evocato lo Spirito, non è semplicemente un augurio o una promessa, ma un pegno e un impegno, che i discepoli dovranno custodire e accrescere perché le città degli uomini non somiglino sempre più a dei cimiteri costruiti da una sapienza mortale, modellata dall’homo homini lupus, ma alla Gerusalemme che scende dal cielo, «vestita come una sposa adorna per il suo sposo».

Interrogativi per attualizzare
1. Ci sono anche nella chiesa parole e ambienti che rimbombano di vuoto?
2. Come cambierebbe la nostra comunità se fosse se abitata dallo Spirito?

Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano