Introduzione al tema del giorno
Uomini e istituzioni hanno cercato spesso di definire Dio, modellando di continuo il suo Volto e circoscrivendo la sua azione in ambiti precisi. Le letture odierne, in sintonia con diverse altre pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento, testimoniano che Dio è alterità e libertà. Lo stesso nome JHWH esprime la natura di un Dio esistente e libero. Questo significa che Dio non obbedisce a una necessità esterna o interna, come gli dèi dei popoli pagani; il movimento di salvezza, che parte da lui e a lui ritorna, ha la sua origine nella gratuità e nella libertà dell’amore. La stessa testimonianza che Gesù offre di Dio nei vangeli, è quella di un Dio che libera dal cerchio chiuso del frammento storico, per aprirlo a un orizzonte, che è sempre al di là della percezione e della giustizia dell’uomo. La lettura di Isaia e il vangelo di oggi testimoniano questa verità forse troppo repressa, ma essenziale alla fede.
Per leggere e comprendere
La parabola evangelica sugli operai ingaggiati per lavorare nella vigna s’inquadra bene nel cammino di fede che le ultime domeniche del tempo ordinario ci hanno dischiuso. Infatti, il discorso contenuto nel capitolo diciotto di Matteo – letto nelle domeniche precedenti – delineava gli aspetti fondamentali di una comunità ecclesiale che vuole essere alla sequela di Cristo, ma la nuova tappa che inizia dopo il capitolo 18 mette in luce il volto di una chiesa che fatica a rispondere a quel modello. Anche la parabola odierna presenta un problema, che doveva essere senza dubbio un caso difficile in cui si dimenava la comunità di Matteo: due gruppi di cristiani si contendevano il primato della chiamata e il privilegio di essere primi rispetto agli altri. Non è difficile riconoscere negli operai della prima ora, inviati a lavorare nella vigna del padrone, gli ebreo-cristiani, un gruppo che nella chiesa di Matteo doveva essere non solo numeroso ma anche culturalmente e religiosamente forte. In effetti, Israele è il figlio primogenito e Dio non ha mai rinnegato né il suo popolo né l’alleanza con lui stabilita, afferma Paolo nella lettera ai Romani (11,29). Questa coscienza doveva costituire un vanto per i cristiani provenienti dall’ebraismo. Sull’altro versante, però, la chiesa di Matteo è composta da un altro gruppo formato sia dai pagani che provenivano dalle genti, sia da quella parte di Israele che non era rappresentativa del popolo santo, perché composta di pubblicani, peccatori pubblici, prostitute, ecc. Gli operai della parabola, ingaggiati all’ultima ora, richiamano queste categorie di persone, entrate anch’esse nella chiesa di Cristo, ma non bene accette al gruppo dei pii.
L’insegnamento della parabola è racchiuso nei versetti conclusivi e mette a soqquadro le convenzioni acquisite e le gerarchie consolidate. Secondo il metro della giustizia umana, le rimostranze che i primi operai rivolgono al padrone sembrano ineccepibili: «Gli ultimi hanno lavorato un’ora sola e li hai fatti uguali a noi che abbiamo portato il peso del giorno e il caldo!». In effetti, non è secondo logica né secondo giustizia pagare gli ultimi come i primi. Ma lo shock che vuol provocare la storia raccontata da Gesù consiste proprio nel capovolgere il criterio della logica retributiva, del do ut des, del «ti do perché tu mi dai!». Tutti – senza eccezioni ed esclusioni – siamo stati fatti oggetto della liberalità di Dio che ci ha chiamati. La meritocrazia non appartiene al linguaggio dell’amore, ma a quello del salario. Tutto è grazia è il fondamento di una vita vissuta all’insegna della gratuità. Riconoscere questa verità ci rende riconoscenti e liberi.
Interrogativi per attualizzare
- Di quale Vangelo siamo testimoni? Il nostro annuncio è segnato dalla gratuità e dalla grazia oppure vive di commercio e ricompense, buon nome e meriti?
- Facciamo una lettura della nostra vita e proviamo e a discernere su quali fondamenti l’abbiamo edificata.
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano