Introduzione al tema del giorno
Le letture di questa domenica si prestano a diverse interpretazioni e non è facile coglierne il nucleo fondamentale. Lungo i secoli, soprattutto al testo di Matteo, sono state date diverse interpretazioni. Una cosa, però, è certa: all’uomo distratto e incapace di afferrare l’appello di Dio, la Parola di oggi ricorda la serietà del momento e dell’ora, l’urgenza della conversione e della decisione.
Per leggere e comprendere
La parabola dei due figli è provocante e di non facile lettura, anche a motivo di alcune varianti testuali. Un’interpretazione, che identificava un figlio con Israele (colui che promette al padre di andare nella vigna, ma poi non va) e l’altro con la Chiesa (colui che non vuole andare, ma poi va) è tendenziosa e sostanzialmente falsa. Anche perché i manoscritti più importanti (e diversi documenti patristici di rilievo) attestano che la versione originaria parla prima del figlio che dice «non vado» e poi si pente, e solo dopo di quello che dice «sì, vado», ma poi non obbedisce. In conclusione, il figlio che fa la volontà del Padre è il primo, e non il secondo. La questione non è secondaria, perché Matteo non intende fare di questa parabola un giudizio sulla situazione di Israele in rapporto a Cristo. Il problema è un altro, e concerne la conversione che pubblicani e prostitute hanno attuato nella loro esistenza (cf. Mt 28,31), a differenza degli uomini religiosi e pii che invece non si sono convertiti. Si tratta di una questione di fondo, che attraversa Israele, ma anche la Chiesa di Cristo: chi è il vero credente? Colui che dice ma non fa, oppure colui che – pur non dichiarando la propria fede – fa la volontà del Padre? Anche qui, però, bisogna fare attenzione a non svilire il messaggio con semplificazioni troppo rapide. Matteo non condanna l’ortodossia, ma la frattura che si crea spesso e volentieri tra ortodossia e ortoprassi, tra il dire e il fare. L’unità tra confessione di fede e prassi è uno dei punti forti dell’evangelo secondo Matteo e il testo di Mt 7,21-23 lo dimostra. Ai credenti che fanno sfoggio delle loro opere prodigiose e dei carismi più prestigiosi «Signore, Signore! non è nel tuo nome che abbiamo profetizzato e cacciato i demoni, e nel tuo nome abbiamo fatto miracoli?» viene risposto in modo sferzante: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!». L’invocazione Kyrie, Kyrie / Signore, Signore indica che siamo all’interno della comunità cristiana. Dalla formulazione di Mt 7,22 possiamo dedurre che profezia, esorcismi e miracoli, per i fedeli che li esercitavano, costituivano dei punti di appoggio e di prestigio, analogamente a quanto succedeva nella comunità di Corinto (1 Cor 12-13). La polemica di Matteo, ovviamente, non ha come obiettivo diretto la profezia
e neppure i miracoli: essi accompagnano sia l’annuncio di Gesù, sia quello dei suoi inviati. Ma non sono segni incontrovertibili di una comunità cristiana. Ciò che definisce un discepolo di Cristo è l’attuazione della volontà del Padre. In questa luce, i pubblicani e le prostitute diventano un modello per quelli che dicono e non fanno, perché essi hanno avuto la forza di ricredersi, mentre i cosiddetti ortodossi – che professano la loro fede soltanto a parole – non hanno mai il coraggio di mettere in questione se stessi e le proprie certezze. Il monito severo di Gesù è da prendere sul serio, se si vuole evitare che valga ancora oggi la vecchia preoccupazione di Bernanos: «Dio non sceglie gli stessi uomini per custodire la sua Parola e per compierla». Questo è lo scandalo!
Interrogativi per attualizzare
- Sono tra quelli che dicono e non fanno o tra quelli che semplicemente fanno la Volontà del Padre, senza proclami e annunci roboanti?
- Cosa significa vivere l’ortoprassi nelle nostre comunità cristiane?
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano