Introduzione al tema del giorno
Il filo conduttore delle letture odierne potrà difficilmente essere percepito se non si tiene conto del contesto storico e culturale dei brani biblici proposti dalla liturgia. A uno sguardo superficiale e veloce sfugge la ricchezza e la profondità di un messaggio che è radicato nel pensiero biblico e che non può e non deve essere ridotto a puro umanesimo, perché si tratta di un discorso sull’alleanza e sull’opzione divina, sull’amore compassionevole e sulla fedeltà: aspetti fondamentali che costituiscono l’essere stesso del credente.
Per leggere e comprendere
La controversia tra Gesù e i farisei, riportata dal passo del vangelo secondo Matteo, offre uno stimolo a riflettere seriamente sulla relazione tra comportamento verso Dio e comportamento verso il prossimo, che è anche il tema centrale della prima lettura.
Sullo sfondo della questione farisaica riguardante il comandamento più grande, abbiamo la disputa rabbinica sulla gerarchia dei precetti della Torah. In effetti, in seno all’ebraismo, si discuteva sia sui precetti da considerare “leggeri” e “gravi”, sia sulla possibilità di riassumere il contenuto della Torah in un’unica regola d’oro. Le prescrizioni della Torah erano ripartite dai rabbini in 613 precetti, di cui 365 proibizioni e 248 comandamenti positivi. All’uomo occidentale e moderno questa ripartizione potrebbe sembrare un formalismo irragionevole, ma in realtà era (ed è) il tentativo – mediante simboli numerici – di presentare Dio come Colui al quale appartiene ogni ambito della vita umana, ogni aspetto del vissuto personale e relazionale.
Gesù non si sottrae alla questione e risponde con la prima parte dello Shemà che riguarda l’amore verso Dio (Dt 6,5); ma accanto a questo, e allo stesso livello (in greco abbiamo homoia = “dello stesso rango”), pone il comandamento dell’amore del prossimo (Lv 19,18). L’accostamento rende chiaro che il primo comandamento non si realizza senza il secondo.
Per comprendere pienamente la risposta di Gesù è necessaria tuttavia una seconda osservazione, abbastanza ovvia nell’ambito biblico, ma non così presente nel contesto culturale dell’occidente. Con il verbo amare nella Bibbia non s’intende principalmente un sentimento, un’emozione o un movimento della psiche umana. Nell’Antico come nel Nuovo Testamento, amare è connotato da scelte concrete e tangibili di responsabilità: un farsi carico dell’altro/a. Soltanto quando accetto di “portare il peso” dell’altro/a, soltanto quando me ne faccio carico, posso dire di amare veramente. In questo frangente si comprende come l’amore vada esteso fino alla relazione con il nemico. Lo rende chiaro un testo dell’Esodo che suona così: «quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre e quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso: mettiti con lui a scioglierlo dal carico» (Es 23,4-5). E lo rende ancora più chiaro Gesù, nel Discorso del monte, quando proclama: «Io vi dico, amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché diventiate figli del Padre vostro celeste che fa sorgere il suo sole sui malvagi e sui buoni e fa piovere sopra i giusti e ingiusti» (Mt 5,44-45).
Ne consegue che la vera conversione, la vera metanoia non consiste solo nell’imparare ad amare, ma nell’imparare a essere compartecipi di “Questo Amore”.
Interrogativi per attualizzare
- Proviamo a paragonare la nostra comprensione dell’«amore» con quella biblica. Quali sono le differenze più rilevanti e a quale conversione siamo chiamati?
- Come realizzare il comandamento dell’amore in politica, nella vita civile e sociale…?
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano