Il tema della Domenica
Vivere l’Avvento significa imparare l’attesa. Si aspetta un lavoro, un amico/a, un figlio… E ci sono persone che non aspettano più nulla, perché troppo delusi dalla vita, segnati dal fallimento, derubati della speranza… E poi, siamo ancora capaci di attendere noi – donne e uomini del 21 secolo – ammaliati come siamo dal «tutto e subito», dal risultato immediato e dal turbinio degli eventi? Le letture di questa prima domenica di avvento stimolano a riflettere su questo tema alla luce di una Parola viva e provocante. La nostalgia di un Volto e la responsabilità nell’attenderlo è la via che ci viene offerta per vivere questo tempo di grazia.
Prima lettura: Is 63,16-17.19; 64,2-7
La prima lettura contiene la preghiera di un popolo prostrato e deluso. Si tratta di una supplica, intrisa di dolore e di passione, che Israele rivolge a Dio dalla miseria della sua situazione presente, ricordandogli i vincoli d’amore e di fedeltà. La preghiera inizia con la memoria degli interventi passati di Dio a favore del suo popolo (Is 63,7-14) e si sviluppa in un appello accorato, che implora oggi – come ieri – il suo intervento (63,15-64,11). È difficile identificare la situazione storica in cui la supplica è nata; forse bisogna risalire al tempo dell’esilio o dell’immediato post-esilio, perché si parla del tempio in rovina e di una situazione sconfortante. È certo, però, che, dal profondo del proprio smarrimento, la comunità trova ancora la forza di confessare che Dio è un Padre che salva: «Tu Signore sei nostro padre, da sempre ti chiami nostro redentore!». È interessante il legame tra la paternità di Dio e la redenzione: se Dio è Padre, è anche impegnato a riscattare i suoi figli, a liberarli dalla miseria e dall’oppressione, come al tempo dell’esodo, quando essi erano schiavi di un potere tiranno e crudele; se Dio è Padre interverrà di nuovo, come in passato.
Subito dopo la preghiera diventa audace, perché punta il dito verso Dio: «Perché Signore ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore?». L’interrogativo sembra incolpare Dio della situazione che il popolo vive, e anche Girolamo si sforza giustamente di spiegare che non è Dio la causa dell’errore, ma il testo si esprime così perché la pazienza di Dio «che desidera la nostra salvezza, quando non corregge chi sbaglia, sembra essere causa dell’errore e dell’indurimento». E tuttavia, domandiamoci: l’audacia di puntare il dito verso Dio, di fronte al male che sovrasta l’uomo e il mondo, non appartiene anch’essa alla vitalità della preghiera? La fede non consiste proprio nel responsabilizzare Dio, dicendogli: «Tu sei il nostro redentore, e anche se questa situazione ci appartiene perché l’abbiamo meritata, ricordati che tu sei il nostro padre»? Sì, la fede richiede questo ardire.
La supplica continua su questa falsariga, quando presenta un’altra richiesta dello stesso tenore: «Ritorna per amore dei tuoi servi!». Qui gli oranti non chiedono a Dio di farli tornare, come accade spesso nelle preghiere penitenziali, ma pregano Dio di tornare lui a loro, di “convertirsi” (il verbo shub / tornare) sta ad indicare la conversione! Certo, molto spesso, nella Bibbia, si accentua la conversione dell’uomo, e non è il caso di dimenticarlo. E tuttavia, ci sono situazioni in cui solo Dio può intervenire, è Lui che deve tornare, perché il suo ritorno costituisce l’unica possibilità di salvezza. Di qui l’augurio appassionato dell’orante: «Oh! squarciassi tu i cieli e discendessi!». L’invocazione – utilizzando un linguaggio teofanico – ricorda i grandi interventi di Dio, come quello sul monte Sinai dove JHWH squarciò i cieli, scendendo in mezzo al fuoco e al fumo (cf. Es 19), ma evidenzia anche il carattere straordinario e inaudito di tutte le opere di Dio: Dio squarcia i cieli e la terra germoglia.
Davanti alla colpa e alla situazione mortale nella quale la comunità si è cacciata con i suoi peccati, è necessaria una creazione nuova. Si comprende allora come la confessione della propria iniquità e della propria impurità si concluda non con un ripiegamento su di sé – sempre in agguato in queste situazioni – ma con un nuovo, accorato appello: «Tu sei nostro padre, noi siamo argilla, sei stato tu a plasmarci!».
Bisogna sottolineare il contrasto tu – noi: da una parte, la fragilità della condizione umana, con la creta che la rappresenta; dall’altra, la paternità di Dio. L’uomo è ’adam e, dunque, argilla, polvere (‘adamah): non si può, e non si deve, fuggire di fronte alla propria verità; non si può, e non si devono voltare le spalle alla caducità che contrassegna le nostre intenzioni, i nostri progetti e le nostre opere. Il limite costituisce il nostro orizzonte e riconciliarci con questo limite è principio di saggezza. La presunzione acceca e solo chi ha il senso della fragilità sa ritrovare la strada, sapendo che – malgrado le colpe e i tradimenti – Dio è e rimane Padre. La preghiera non pone una di fronte all’altra la fragilità umana e l’onnipotenza divina, cosa che sarebbe più consona allo sviluppo del pensiero. No, soprattutto quando si prega, Dio è, e rimane, il Padre.
Il Vangelo: Mc 13,33-37
L’appello alla vigilanza, con cui si apre l’anno dell’evangelista Marco, permette di proseguire il discorso appena abbozzato, mettendo in rilievo l’altro aspetto del tempo di Avvento: responsabilizzare Dio significa, allo stesso tempo, prendere coscienza del compito che è dato all’uomo. Il passo del vangelo odierno, infatti, ci parla di uno sguardo al futuro che non trascura il presente, ma se ne fa carico. L’attesa del credente è un’attesa responsabile! Va ribadito, infatti, che l’escatologia non va confusa con un aleatorio viaggio nel futuro del mondo e dell’uomo, come se si trattasse, essenzialmente, di una parola sulla “fine”. In realtà, l’escatologia si presenta come sapienza di vita, insegnamento per superare i momenti difficili, i momenti di passaggio e di crisi, che quotidianamente si presentano alla nostra porta. Non è un caso che l’appello alla vigilanza si trovi, in Marco, immediatamente prima del momento estremamente critico della passione, dove i discepoli sono trovati addormentati. Ci sono nella vita di ciascuno situazioni in cui una persona cara ci viene tolta, situazioni di assenza, in cui il tener duro, nella fedeltà al proprio compito, diventa l’unico modo per tenere vivo il legame. Ed è proprio questo che Marco intende quando parla di vigilanza. L’“atteggiamento escatologico” dei cristiani è estremamente importante e consiste nel vigilare con costanza, nel non addormentarsi, come i discepoli nel Getsemani, lasciandosi sfuggire il kairòs, come lo definisce Marco, il “momento opportuno, decisivo”.
L’immagine dell’attesa vigilante del portinaio è particolarmente efficace, perché risponde a quanto richiesto nei momenti cruciali della vita. Il portinaio sa attendere, osservare e discernere; in ultima istanza, la sicurezza degli abitanti della casa dipende dalla sua vigilanza. Nell’attesa del Signore Gesù siamo chiamati ad essere le sentinelle che sanno vegliare e discernere, che hanno occhi profondi per scrutare la notte senza paura e sanno percepire i gemiti e le speranze di coloro che passano accanto, sanno lenire dolori e gustare il fascino del fiore che sboccia nei crepacci della storia. «Vigilate!» si rivolge a tutti i cristiani, perché sappiano percorrere le strade degli uomini, senza lasciarsi sconfiggere dal sonno, cogliendo i segni del Signore che viene. Colui che aspetta non si dissolve nel presente, pur amandolo, né si aliena nel futuro, pur preparandolo, ma scruta la storia, sapendo che nello scorrere del chronos è sempre nascosto un kairòs, un passaggio di grazia, fino al giorno della Sua Venuta.
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano