Commento alla Parola della liturgia della II Domenica di Avvento/ B

Il tema della Domenica

I simboli che dominano le letture di questa seconda domenica di Avvento sono impregnati di saggezza divina e spessore umano: appartengono alla Bibbia, ma anche alla cultura dell’essere umano. Il deserto, la strada e la voce richiamano il cammino della vita, nei suoi sentieri di tenebra e di luce, di crisi e di speranza. Perché il nostro viaggio, spesso, somiglia a una traversata del deserto, casa di sciacalli e scorpioni, di potenze avverse alla vita e all’uomo, con fame, sete e tempeste di sabbia,. E tuttavia, ciascuno potrebbe raccontare forse che proprio in quella regione «grande e spaventosa» (Dt 1,19), improvvisamente è sceso pane dal cielo ed è sgorgata acqua dalla roccia. Poesia, certo, ma anche verità sull’uomo e sulla terra da lui abitata. È il motivo che la Parola ci consegna in questa seconda domenica di Avvento.

Prima lettura: Is 40,1-5.9-11

L’annuncio su Gerusalemme riguarda una città simbolo, che – nelle alterne vicende della storia – ha sempre rappresentato la gioia, la crisi, la frustrazione e la speranza del mondo intero. Nel periodo più buio e desolato, come quello del post-esilio, le rovine di Gerusalemme rappresentarono – più di ogni altro segno – il popolo di Israele, sfiduciato e in crisi profonda di identità e di fede. Ma non solo Israele, perché l’Israele biblico e la città di Gerusalemme, a più riprese sono stati letti come simboli della condizione umana. Nel libro delle Lamentazioni, la città viene rappresentata come una “signora” divenuta vedova, che piange amaramente nella notte, senza che nessuno la consoli. Più volte, nel primo capitolo di quell’elegia del dolore, la solitudine di Gerusalemme, senza Dio, viene descritta mediante il ritornello: «e nessuno la consola». L’espressione non rivela solo il dolore fisico e psichico, ma anche la morte della speranza, l’impossibilità di uscire fuori dalla crisi. E tuttavia, all’improvviso, nel silenzio e nel deserto di una strada senza uscita, risuona la voce che annuncia la fine di un incubo: «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio – parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù… Una voce grida: nel deserto preparate la via del Signore…».

Diversi elementi colpiscono in questo brano che apre il libro del Deuteroisaia, ma soprattutto due, proprio nelle battute iniziali: la ripetizione del verbo consolare e – congiuntamente – le espressioni il mio popolo – il vostro Dio. Questo significa che l’esperienza della consolazione di cui si parla, e che annuncia la grande svolta, viene ricondotta al cuore del patto di alleanza, in cui Dio ha preso l’impegno di essere “il Dio del suo popolo”. Da qui scaturisce anche la bellissima immagine di “parlare al cuore” di Gerusalemme, che la preposizione ebraica utilizzata permetterebbe di tradurre anche con l’espressione “parlare sul cuore”. La tenerezza di questa espressione, in altri contesti biblici, richiama l’intimità che lega due persone, soprattutto quando una di loro viene investita da una situazione di angoscia, pericolo o colpa, e l’altra le poggia la testa sul petto. Il profeta Osea adopera la stessa espressione quando descrive Dio che, di fronte a un popolo strutturalmente infedele, decide di ricordare il suo amore gratuito, proclamando: «la sedurrò, la porterò nel deserto, parlerò al/sul suo cuore» (Os 2,16). È un Dio, dunque, che rifiuta – come sempre – le armi del castigo e della vendetta per ritrovare le uniche armi che sono in suo possesso: quelle della tenerezza. Il nuovo esodo che viene annunciato nel Deuteroisaia, la nuova via in mezzo alla steppa… sono i segni di un amore eterno, che non verrà mai meno; garanzia di una colpa che non sarà più ricordata, di un capitolo nuovo che si apre grazie alla fedeltà di Dio.

Il Vangelo: Mc 1,1-8

L’inizio del vangelo di Marco presenta questo nuovo capitolo, che Dio scrive nella storia del suo popolo e nelle vicende umane. Il nuovo capitolo porta il titolo “Gesù, Cristo e Figlio di Dio”. Le coordinate di Marco sono quelle stesse del brano di Isaia: il deserto, la voce e la strada.

Il deserto di cui qui si parla non va tanto cercato sulla carta geografica (anche se il contesto storico permette di identificarlo con quello di Giuda) ma su quella grande carta che è la vita umana. In ogni cultura il deserto ha assunto una chiara valenza simbolica – come la Gerusalemme del libro di Isaia –  denotando il vagabondare, l’isolamento e la perdita delle risorse vitali, che danno solidità alle speranze umane. I deserti sono anche quelli creati dalla nostra civiltà: fiancheggiano e abitano nelle nostre città e nelle nostre case. Il deserto ricorda a Israele – e ad ogni uomo – la situazione di precarietà che contrassegna la vita umana, la fragilità dei progetti e delle costruzioni storiche. Nel deserto, l’opera delle mani dell’uomo si scontra perennemente con il limite. Il deserto ricorda la domanda di senso: si tratta di una profonda esperienza di fragilità, ma anche un richiamo a ciò che veramente fa vivere l’uomo.

All’uomo fragile e smarrito, che cerca una via, la Voce grida: «nel deserto preparate la strada». Potrebbe sembrare paradossale che la risposta alla ricerca dell’uomo possa consistere in una Voce. Eppure si tratta di una tradizione solida, ben attestata nella Bibbia. La Voce, in Marco, rimanda alle voci dei profeti e a quella del Battista, ma fa soprattutto riferimento al legame profondo di alleanza che unì Dio e il suo popolo sul monte Horeb, quando Israele venne riconosciuto come il popolo a cui Dio «fece udire dal cielo la sua Voce» (Dt 4,36). Ed è proprio qui la ragione della buona novella annunciata da Marco: all’uomo che vive nella solitudine del deserto e nella ricerca di segni eclatanti che sempre accompagnano le manifestazioni religiose dell’uomo, il Dio della Bibbia fa ascoltare la Sua Voce. Nel deserto di Giuda – ma anche sulle strade desolate della storia umana – risuona nei deserti creati dall’uomo risuona una Voce che grida e chiama, mette in cammino e consola. Gesù di Nazareth è la Voce di Dio che risuona sulle strade desolate dell’uomo.

Ma il messaggio non si esaurisce qui, perché la Parola esige l’ascolto: «ascoltate oggi la sua voce», proclama il Sal 95. Non è un ascolto a mezz’orecchio, ma un impegno: il verbo ebraico shama’ mobilita l’obbedienza. Ed è proprio a questo impegno che rimanda la petizione «nel deserto preparate la strada del Signore, appianate i suoi sentieri». Sappiamo che, al tempo di Gesù, gli esseni avevano incarnato la loro attesa del Messia andando a stabilirsi nel deserto, per preparargli la strada. Gesù non apparteneva al movimento degli esseni; la strada che Gesù annuncia si apre e si prepara tra i deserti degli uomini: in mezzo ai loro affanni, alle loro tragedie, malattie, ipocrisie… È a questa Voce che il credente deve rispetto e obbedienza, non indurendo il cuore, come avvenne «a Meriba, nel giorno di Massa nel deserto» (Sal 95).

Il battesimo di conversione, che Giovanni amministra nel deserto, dice molto di più di un semplice dato storico: dice che – in Cristo – Dio ha deciso di non lasciare più l’uomo solo, in balìa delle sofferenze e della morte. Dio è presente e Gesù è il pegno di questa Sua Presenza. Gli esseri umani continueranno a costruire deserti,  a erigere muri che dividono e violentano la dignità delle persone… ma Dio si farà presente per consolare ed esortare, per asciugare le lacrime e ammonire. In Gesù e con Gesù, Dio risponderà come sempre al pianto delle città desolate e alle grida di donne e uomini calpestati, sviliti e angariati. Ma ancora più forte si leverà la sua Voce: «non trasformate la mia terra in un immenso deserto»!  

Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano