Il tema della Domenica
Le letture di questa terza domenica di Avvento stimolano a riflettere sulla figura del messaggero di Dio e sul compito profetico che investe ogni credente, unto dallo Spirito per essere testimone di un mondo nuovo. L’inviato, di cui parla il libro di Isaia, e il Battista, presentato dal Vangelo, sono due figure reali e, insieme, emblematiche. Uomo della Parola, il messaggero nella Bibbia è anche un uomo coinvolto nella storia. Con una profonda esperienza di Dio, interviene anche nelle vicende umane e politiche del suo popolo, demolendo sicurezze acquisite, facendo lievitare interrogativi, lanciando la sfida a istituzioni, a gruppi di potere e al popolo stesso. Tutto fa, però, alla luce della parola di Dio e dei suoi parametri di verità, spesso così diversi da quelli della diplomazia umana. A tutti e su tutto proclama l’esigente volontà di Dio.
Prima lettura: Is 61,1-2.10-11
L’autore del libretto, che conosciamo con il nome di Terzo Isaia, è il messaggero di una speranza nuova, nell’atmosfera affranta, chiusa e – sotto vari aspetti – integralista del post-esilio. I rimpatriati da Babilonia – nel clima pesante che connota ogni ricostruzione dopo una catastrofe – si ponevano interrogativi, esprimevano dubbi, cercavano nuovi parametri di convivenza religiosa e civile. Accanto a renitenze naturali, proprie di chi aveva troppo sofferto, c’erano anche speranze mai sopite e sogni di restaurazione. Soprattutto nei più anziani esisteva la convinzione di aver pagato abbastanza per le colpe proprie e dei padri: si poteva finalmente rincominciare. È in questo flusso contraddittorio di angoscia e speranza, precarietà e attesa, che scende la parola del messaggero di Dio.
Il suo è un messaggio di gioia e liberazione, sotto il segno dello Spirito. La menzione dello Spirito, come sempre nei profeti, vuole esprimere un’elezione particolare, una missione specifica, contrassegnata non da garanzie umane, ma divine. Perché non è l’uomo che può assicurare il passaggio a un mondo nuovo, ma solo lo Spirito di Dio. I poteri tendono a conservare se stessi, a consolidare i propri privilegi, a rafforzare la convinzione che contano loro e l’opera delle loro mani. Lo Spirito, invece, apre cammini nuovi e misura i bisogni secondo la logica di Dio. È questa la ragione per cui il profeta si rivolge soprattutto agli anawîm / i poveri, che in tutta la Bibbia sono gli interlocutori privilegiati di Dio: perché le verità di Dio non camminano nello splendore delle grandezze umane, ma sulle strade di chi confida in lui.
Chi sono questi poveri di cui parla Isaia? Il termine anawîm, molto frequente nei Salmi, ricorre poche volte nel libro di Isaia, ma – come nei Salmi – anche in Isaia, il vocabolo sta ad indicare le persone sofferenti, fisicamente e moralmente, sfiduciate e depresse, spesso sotto il peso di ingiustizie e angherie di ogni tipo. Gli anawîm vengono descritti nel testo di oggi da una serie di metafore che, nella loro concretezza, lasciano trasparire un reale stato di sofferenza e che, tuttavia, hanno una fiducia totale in Dio liberatore. In questa situazione di prostrazione e abbandono, i poveri veri sono coloro che si affidano a YHWH, nella certezza che il suo Regno è là dove una comunità di uomini pone la sua vita e il suo destino sotto la signoria di Dio.
Ed ecco il messaggio del profeta: in mezzo a questa umanità povera, ma fedele, la parola di Dio scende per annunciare la salvezza, l’anno giubilare della grazia, da intendersi come un tempo di liberazione festosa e universale, di gioia profonda e di esultanza sponsale. È molto bella l’immagine dei germogli e dei semi, con cui si chiude la lettura, perché dice una verità che non andrebbe mai dimenticata: la giustizia, la fede, la speranza… non hanno nel mondo l’apparenza dei grandi portenti o degli eventi sensazionali; esse vivono nel mondo come entità piccole: come un seme in un grande orto, come un germoglio di un grande albero. È una manciata di lievito nella pasta della storia. Certo, non è facile credere nella vitalità della piccolezza in mezzo ai grandiosi apparati di potere, come non è facile sperare in progetti alternativi, quando si conosce già il potere delle mistificazioni e le angherie verso i piccoli. Eppure, la parola di Dio ci stimola ad una conversione vera: dobbiamo imparare ad essere uomini diversamente, ad annunciare la bella notizia con una convivenza umana che sia profezia, segno dei tempi nuovi, inaugurati dalla potenza dello Spirito. Il resto non appartiene a noi; lo sviluppo futuro è nelle mani di Dio.
Il Vangelo: Gv 1,6-8.19-28
Il passo del Vangelo sviluppa e approfondisce il discorso appena fatto, con la testimonianza del Battista. Nel contesto dei sette giorni che scandiscono la prima sezione narrativa del Vangelo di Giovanni, la lettura di oggi presenta il primo giorno: quello in cui il Battista dà una testimonianza su di sé e su colui che viene dopo.
Due aspetti risaltano fin dalle prime battute. Il primo è che il Battista non viene presentato dal Vangelo di Giovanni come il precursore, ma come “il testimone”: l’inviato che attesta la Verità, dopo averla conosciuta e accolta nella sua vita. Il secondo dato – strettamente connesso al primo – è che l’interrogatorio a cui viene sottoposto il Battista ha tutta la struttura di un processo, di un’inchiesta giudiziaria, dove Giovanni è chiamato a rendere ragione del suo operato davanti al tribunale dei sacerdoti, leviti e farisei, inviati a lui dai giudei che stavano a Gerusalemme. È interessante il contrasto tra chi accorre da Giovanni per farsi battezzare e i detentori del potere che accorrono a lui per verificare e tenere tutto sotto controllo. Ma non è proprio questo conflitto che percorre il prologo e tutto il quarto Vangelo, un conflitto tra la luce e le tenebre, con queste ultime che tentano di soffocare la luce? E non è questa la dialettica che attraversa permanentemente la storia umana, dove i messaggeri della Verità che rende liberi vengono posti sotto inchiesta e condannati?
La risposta di Giovanni, di fronte ai detentori del potere venuti a frugare nella sua vita di testimone, è chiara e inequivocabile: Io non sono… Questa attestazione in negativo, ripetuta più volte, è quanto può dire una sentinella di fronte al mistero che la supera. Potrebbe sembrare una testimonianza poco in sintonia con la stima di sé che predica la moderna psicologia. Ma il cammino dell’uomo, e quello del credente, incominciano proprio dal riconoscimento del limite e della verità della propria condizione. Alla radice di tutto sta il riconoscimento del posto che ci è dato, dei compiti assegnatici, senza fuggire nel regno della depressione o della presunzione.
In positivo, Giovanni afferma di essere soltanto una voce che grida nel deserto: spianate la strada del Signore, come disse il profeta Isaia. Giovanni non dice di essere la voce (con l’articolo determinativo), ma una voce, perché essere la voce appartiene a Colui che viene dopo, a cui egli non è degno di sciogliere neanche il legaccio dei sandali. Sarà Gesù a far udire la sua voce, come la voce del Figlio (5,25) o la voce del pastore (Gv 10,3-5.16), mentre al Battista spetta solo il compito di essere una voce. Questa professione rimanda alla profezia di Isaia, ascoltata nella seconda domenica di avvento. In quell’occasione sottolineavo l’importanza che la Voce ha nella storia della salvezza. Oggi ne abbiamo una ulteriore prova nella voce del testimone che rimanda gli uomini a Qualcuno da cercare e riconoscere: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete. Il pericolo di non riconoscere il Verbo fatto carne – pur parlandone continuamente – resta reale anche per gli uomini pii (i farisei lo erano veramente).
L’avvento richiama l’importanza fondamentale dell’attesa, anche per chi crede, e ricorda a tutti il compito di diventare una Voce della “novità” che ferve tra i lastricati della storia.
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano