Il tema della Festa
Tenebre e luce, inimicizia e pace, morte e vita… costituiscono lo sfondo contraddittorio delle letture bibliche di questo Natale. E, in primo piano, un bambino, con il suo fascino e la sua fragilità, il suo mistero e il suo destino. Si sa, i simboli raggiungono delle profondità che le parole non riescono ad avvicinare, ed è naturale che la liturgia ci presenti oggi un’abbondanza di simboli, per descrivere un mistero indicibile: Dio che diventa uomo.
Prima lettura: Is 9,1-6
Il primo simbolo, richiamato dalla lettura di Isaia, è l’oscurità: «Il popolo che camminava nelle tenebre…». Nelle antiche culture della Mesopotamia e dell’Egitto le tenebre rappresentavano il caos primordiale, dove si aggiravano le potenze ostili all’uomo. Anche nella prima pagina della Genesi troviamo: «la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso». Simbolo arcaico, le tenebre diventano poi immagine di ogni situazione negativa, dove dominano paura e malvagità, assenza e morte. Isaia allude alla condizione delle terre a ovest e a nord del lago di Tiberiade, al tempo delle campagne militari dell’Assiria. Sotto il potere del più forte, il piccolo regno di Giuda viene calpestato e umiliato: curvo, sotto il giogo della tirannia, senza dignità e senza futuro. Ma ecco che, improvvisamente, il buio viene squarciato: «Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce, sugli abitanti in un paese tenebroso una luce rifulse».
La duplice menzione delle tenebre e della luce crea un effetto intenso. La forza liberatrice di Dio irrompe nella notte, tra le macerie umane, e tutto si ravviva; appare la luce, la gioia e la pienezza suprema identificata nella felicità suprema: shalôm! È questa la prima verità del Natale: Dio irrompe nella storia dannata dell’uomo per dare nuova dignità a quelli che abitano nel buio, speranza a chi non aspetta più nulla, presenza a chi vive di assenza. Nell’atmosfera variopinta e popolata di balocchi del mondo occidentale, il Natale costituisce, per lo più, un assopimento delle coscienze; la festa ha perso tutta la sua carica esplosiva, rappresentata da un Dio che scende fin là, dove più fitte sono le tenebre, per aprire un nuovo cammino a chi ha perso la sua strada. All’uomo che vuole evadere dalle sue contraddizioni e dalla storia, Dio risponde compiendo il cammino inverso: scendendo nelle tenebre di questo mondo e percorrendo, proprio Lui (!), le strade dell’ingiustizia e del peccato, della vita e della morte. In questo modo si fa Dio-con-noi, Dio-per-noi.
Proseguendo nella lettura, si passa dal simbolo della luce a quello della gioia, che viene descritta con abbondanza lessicale e con immagini proprie di un popolo contadino e guerriero, che gioisce di fronte a un abbondante raccolto e di fronte a una vittoria militare. Ma l’accento del testo si posa soprattutto sul passaggio dalla terza alla seconda persona: «Tu hai moltiplicato la gioia… tu hai spezzato il giogo che gli pesava sulle spalle». Ancora una volta, Dio viene celebrato come l’artefice primo della felicità e della pace. Grazie al suo intervento, gli strumenti dell’oppressione (come il giogo, la sbarra, il bastone e le divise militari) scompaiono, come agli inizi, quando Gedeone liberò Israele dalla tirannia dei madianiti. Dio è sceso per spezzare il giogo dell’oppressione e questo significa che l’umanità non è più la stessa, perché qualcosa di totalmente nuovo è avvenuto: nell’arido deserto della storia un seme è stato piantato, l’aurora è spuntata.
Il terzo motivo che emerge dal testo di Isaia rappresenta il coronamento e la ragione ultima della luce e della gioia: «Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio». Il primo riferimento del testo è certamente quello relativo alla nascita del pio re Ezechia, che governerà Giuda. Ma lo sguardo s’innalza immediatamente e si proietta sul futuro messianico, sul re ideale atteso. Che sia un bimbo straordinario lo si riconosce dai quattro appellativi che definiscono il suo nome: sarà un capo che compirà meraviglie, in possesso di poteri divini e regnerà stabilmente, portando benessere e prosperità. Si tratta di un’immagine ideale, che prende linfa dalle attese messianiche, mai sopite in Israele. È vero, la realtà ci dice che le cose stanno diversamente, perché nel mondo le armi non sono trasformate in aratri e le lacrime vengono moltiplicate e non asciugate; guerre, ospedali, prigioni… continuano a proliferare e la dignità dei poveri continua ad essere calpestata. Eppure esiste una ragione per sperare ancora: questo bambino è il «sì» di Dio alla storia del mondo e dell’uomo ed è la contestazione radicale dell’arroganza umana. Molti esseri umani lo guarderanno e faranno sì che crescano ancora germogli di vita nel terreno arido della storia.
Il Vangelo: Lc 2,1-14
Per tutti noi, credenti in Cristo Gesù, il bambino che nasce a Betlemme rappresenta il «sì» definitivo di Dio alla storia del creato, dei singoli e dei popoli. Dio ha stabilito di amare «questo» mondo e «questa» umanità, senza rimpianti, e ce lo ha detto con il Natale del suo Figlio.
Il racconto di Luca s’inquadra in questa prospettiva. L’accenno iniziale alla storia dell’impero romano, con la menzione dell’imperatore e di Quirinio governatore della Siria da parte di Roma, non ha primariamente lo scopo di offrire le coordinate inoppugnabili di un evento storico. Luca vuole anzitutto fare una teologia della storia, mostrando come Gesù risponde alle attese di Israele e dell’umanità. Non a caso, l’opera di questo evangelista – comprendente il Vangelo e gli Atti – inizia con Gerusalemme e si conclude con l’arrivo di Paolo a Roma. Il bambino che nasce dà senso alla storia di tutta l’umanità, trasformando – come intuisce Origene in una bella omelia sul Natale – il censimento in un libro di vita.
Giuseppe, che si mette in viaggio con la sposa e il bambino nel grembo di lei, non è un girovago, senza scopo e senza senso. Il loro viaggio si inserisce in un piano più ampio, quello divino, dove ogni gemito viene ascoltato, ogni sospiro accolto. Intenzionalmente Luca posa la macchina da presa su una povera famiglia della città di Nazareth, sullo sfondo dell’impero romano, con i suoi imperatori e i suoi legati, il suo potere e il suo prestigio. Il cammino di Dio passa sulle strade dei poveri: Zaccaria, Elisabetta, il vecchio Simeone, Anna, Giuseppe e Maria… sono gli anawîm JHWH, “i poveri di JHWH”, che aspettano la salvezza dal Signore piuttosto che dai poteri forti. Per lo stesso motivo, Luca insiste sulle fasce e sulla mangiatoia, segni modesti e disadorni. È lo stile di Dio che non offre segnali appariscenti della sua presenza. L’uomo, che vorrà incontrarlo, dovrà imparare a riconoscerlo nel gemito di una persona sofferente, nel vagito di un bambino, nel silenzio di chi non ha voce. Ai pastori, gli angeli danno come segno «un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia»: da questo lo riconosceranno. Eppure, questo bambino è l’oggi della salvezza divina offerta a ogni uomo, il salvatore che libera e perdona i peccati, il Cristo Signore che vince la morte. Questo bambino è il «sì» di Dio a ogni uomo che lotta per un mondo migliore.
E se Dio, nel suo Figlio, una volta per tutte, ha voluto pronunciare il suo «sì», ciò significa che ogni creatura è meritevole di accoglienza e nessuna vita è indegna di essere vissuta. Se Dio ha pronunciato il suo «sì», abbiamo la certezza che quell’essere irrequieto, nostalgico, malato, assetato… che è l’essere umano, potrà trovare una risposta ai suoi interrogativi. I gemiti della creazione, dell’uomo e dello Spirito (cf. Rm 8) non sono più i rantoli di un morente, ma i dolori di una partoriente, che attende con impazienza la nascita di «un cielo nuovo e una terra nuova…, la città santa, la nuova Gerusalemme…» dove Dio «asciugherà ogni lacrima dagli occhi», e dove «la morte non ci sarà più, né lutto, né grido, né pena, perché le cose di prima sono scomparse» (Ap 21,1-4).
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano