Il tema della Domenica
La rivalutazione della realtà sacramentale della chiesa, avvenuta con il concilio Vaticano II, ha conferito al battesimo uno spessore che andava a poco a poco svilendosi. Ed è senza dubbio un’acquisizione positiva, perché nessun rito e nessun ingresso in istituzioni religiose o forme di vita uguaglia quel primo momento, che segna colui che ne è protagonista in maniera inconfondibile. La ragione ultima di un tale dinamismo risiede nell’esperienza di Gesù di Nazareth, «il più forte», che – rispetto a Giovanni – «battezza in Spirito Santo e fuoco». Immagine oscura e ardita per il lettore moderno, ma che richiama con parole appropriate la svolta decisiva avvenuta nella storia della salvezza con l’avvento di Gesù. È proprio da qui che bisogna partire per comprendere il battesimo cristiano: Dio, che tante volte, e in diversi modi, era intervenuto a favore del suo popolo, ora, nella pienezza dei tempi, interviene ancora per salvare gli uomini “nel suo figlio diletto”. Il battesimo di Gesù è la manifestazione di questa salvezza definitiva, che Dio ci ha dato nel “suo diletto”.
Prima lettura: Is 40,1-5.9-11
La salvezza di cui parla il “libro della consolazione” – così viene chiamato il Deuteroisaia, a motivo delle parole iniziali «consolate, consolate il mio popolo» – non definisce solo il cambiamento dell’uomo toccato dall’intervento divino, ma lo stesso agire di Dio. Anzi, direi che la salvezza definisce anzitutto l’essere di Dio, perché JHWH non può essere altro che un Dio che rialza dalla polvere e fa uscire dalle tenebre. Anche quando castiga (nel testo si parla anche di questo), JHWH è un Dio che salva, perché nel piano di Dio il castigo non è mai l’ultima parola: rimane sempre un futuro aperto, perché Dio non uccide la speranza. Non a caso, egli si presenta anche ora, dopo la catastrofe dell’esilio, richiamando quel patto supremo e originario che è l’alleanza. Ancora una volta Dio chiama Israele «mio popolo» e si presenta come il «suo Dio». La crisi dell’esilio aveva prodotto uno sbigottimento tragico, non solo perché aveva messo in crisi l’identità dei sopravvissuti, ma soprattutto perché aveva fatto emergere interrogativi angoscianti sulla fede nel Dio dei padri, sulla speranza nel futuro e sulla permanenza dell’alleanza.
Dio interviene ancora, fugando ogni dubbio. I rovesci di fortuna sopraggiungono perché un popolo non prende sul serio Dio e la sua volontà. Il deserto, di cui si parla all’inizio della lettura, è qui il simbolo della situazione di un popolo solo, che ha perso la sua identità e si trova in balìa di un ambiente ostile e mortale. Ma Dio non lascia l’uomo nella polvere: Dio è colui che nel deserto apre una strada. Ogni popolo può sbagliare e decadere, ma il Dio che ha stretto un patto con lui, prima o poi si lascia ancora incontrare, si lascia di nuovo vedere. Prima o poi, il capitolo che parla di «colpa» e di «castigo» sarà chiuso per sempre.
È in questo contesto che va compresa la “consolazione”. In questa parte del libro di Isaia, per ben 16 volte ricorre il verbo consolare, come risposta alla tristezza di Gerusalemme, immaginata come una donna solitaria, che piange nella notte «senza alcuno che la consoli». La salvezza di Dio è anzitutto consolazione, ma non nel senso intimistico. Il verbo ebraico e il contesto indirizzano piuttosto sul senso di una liberazione reale: «Ecco il Signore Dio che viene con potenza!». L’immagine di un Dio guerriero invincibile non suona gradevole ai nostri orecchi, ma talvolta è l’unica metafora che, in situazioni disperate, rende possibile la speranza: Qualcuno, che ha braccia potenti, è in grado di aprire definitivamente la prigione in cui è rinchiusa la mia, la nostra vita. Anche i padri della chiesa hanno usato con frequenza immagini forti per descrivere l’uomo schiavo del peccato e la novità di Cristo che irrompe nell’evento battesimale. Bisogna riconoscerlo: spesso siamo incapaci di rompere le nostre e le altrui catene, abbiamo bisogno di qualcuno che ci venga in aiuto. La storia di Israele è lì a testimoniarlo. Dobbiamo, allora, abbandonare le vie della ragionevolezza e le corazze dell’io, per abbandonarci alla forza e alla potenza di Dio.
Il Vangelo: Lc 3,15-16.21-22
«Il popolo in attesa» è la prima immagine del vangelo odierno ed è veramente una bella immagine, che definisce non solo l’aspettativa messianica al tempo del Battista, ma quella di ogni uomo in ogni tempo. Si aspetta un figlio, una condizione migliore, un lavoro, una casa… A pensarci bene, la disperazione consiste proprio nel non aspettarsi più nulla. L’attesa del Messia e dei tempi messianici ha segnato non solo la storia di Israele, ma la stessa vicenda umana. Sono le domande di tutti: quando la terra sarà una casa abitata dalla giustizia e dalla pace? Quando verranno distrutti lutto, affanno, lacrime? Chi si illude è vicino a disperarsi, ma l’attesa del tempo messianico non è forse un’illusione? Non siamo molto lontani dalle folle che, al Giordano, si chiedevano «nei loro cuori, riguardo a Giovanni, se per caso non fosse lui il Cristo».
Giovanni non vende illusioni e annuncia la presenza «di uno più forte, che battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Si annuncia così una nuova era della storia della salvezza: quella in cui si opera il passaggio dall’attesa alla novità cristiana. Cristo è il segno di questo nuovo inizio: non perché verranno meno i lutti, le ingiustizie e i soprusi, ma perché – pur nel provvisorio che contraddistingue sempre l’impresa umana – in Lui un nuovo ordine di valori farà il suo ingresso nel mondo. In una società dove vigono la legge del più forte e del profitto, la lotta per il potere e per lo sfruttamento, la strada di Cristo avrà nuovi traguardi e sarà connotata da lineamenti nuovi, disegnati da un altro compasso, alternativo a quello usuale adoperato dai costruttori di questo mondo. È questo il battesimo messianico: un progetto nuovo di umanità, in nome di Gesù Messia.
Ed è questa la via di ogni battezzato: entrare in un mistero che nasconde possibilità diverse da quelle costruite con i parametri umani. Il mistero di Dio è inconoscibile ai sapienti di questo mondo perché i parametri di comprensione sono diversi. Credere nel cambiamento del cuore umano sulla base di un’autorevolezza che non è potere, non è infantilismo né oppio. Chi ha questa fede in un messianismo autorevole ma non onnipotente, che crede nell’essere umano senza umiliarlo, che entra negli abissi dell’essere e nelle profondità della terra senza calpestarla per trarne profitto… costui ha il battesimo dello Spirito. Il battesimo è infatti la narrazione di un’immersione: di Cristo, anzitutto, e dei cristiani, al suo seguito. Un’immersione che opera liberazione invece di schiavitù.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano