Il tema del Giovedì Santo
«Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine»: è questo solenne versetto introduttivo che rende magnificamente il tema di questo primo giorno del triduo pasquale. È il versetto che apre e dà senso non solo al grande portale d’ingresso che si trova nel capitolo 13 del Vangelo di Giovanni, ma anche a tutti gli eventi successivi. Un’introduzione solenne che offre la chiave ermeneutica del mistero dell’amore di Dio nella passione-morte-risurrezione di Cristo Gesù. La menzione di Giuda all’inizio di Gv 13 (cf. Gv 13,2) e l’annuncio del tradimento di Pietro a conclusione (cf. 13,36-38) rende il racconto assai drammatico, ma ne evidenzia ancora di più la paradossale portata: chi ascolta sa di entrare in un dramma di amore e di morte, dove ciascuno è chiamato a scegliere la sua parte.
Il Vangelo: Gv 13,1-15
Giovanni colloca il dramma della lotta tra amore e morte nel contesto della notte. In tutta la letteratura biblica ed extra-biblica la notte è il momento dell’intimità, della vicinanza e delle manifestazioni d’amore, ma anche del tradimento, del nascondimento e della fuga. Il contesto parla di convivialità: il maestro sta a tavola con i suoi, condividendo con loro il pane, e l’amicizia di cui il pane è simbolo. Gesù conosce il cammino da percorrere: il termine giovanneo eidōs / sapendo, che ricorre tre volte nei primi versetti, evidenzia la lucida consapevolezza con cui Gesù che accetta la volontà del Padre e le va incontro. Il tradimento e la morte sono la porta d’accesso all’incontro e sono la dimostrazione di un amore senza confini. Non a caso il verbo agapaō insieme al sostantivo agapē domina i capitoli 13-17 del Vangelo di Giovanni, mentre nei primi 12 capitoli ricorre poche volte. C’è uno squilibrio evidente tra le due parti, a testimoniare che il momento dell’ora è anche il momento dell’amore. Li amò eis telos dice il testo: espressione che può essere interpretata in due modi: “sino alla fine”, cioè fino alla morte, ma anche “fino al compimento”, fino all’estremo. La morte di Gesù è la suprema espressione del suo amore: «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» dirà più tardi (15,13). Il lettore ritroverà il termine telos / fine – compimento al momento della morte, quando Gesù, dalla croce, pronuncerà l’ultima parola: te-teles-tai: è compiuto! Tutta la missione di Gesù è nel segno dell’Amore, ma soprattutto la sua Ora, che è l’ora del passaggio al Padre e dell’amore supremo verso i suoi. La lavanda dei piedi, descritta subito dopo, non rappresenta quindi semplicemente un atto di umiltà o di ospitalità. Nel racconto di un apocrifo giudeo-alessandrino, composto tra il 100 a.C e il 100 d. C., che porta il titolo Giuseppe e Asenat, La lavanda è un gesto di amore squisito. Asenat è una donna che ama e si offre di lavare i piedi al suo Giuseppe, che però protesta, perché in fondo è un servizio che appartiene agli schiavi. Ma proprio qui è il punto: l’amore va fino in fondo e la lavanda dei piedi è simbolo dell’evento d’amore che avverrà di lì a poco: la morte e risurrezione. Il messaggio è chiaro: Come per Cristo, anche per il cristiano, non vi può essere altra lavanda se non quella di morire perché ogni essere umano abbia la Vita.
Nel suo cammino, l’uomo si trova spesso davanti a scelte importanti. A fondamento di tutte, però, esiste un’alternativa radicale che Agostino esprimeva in questo modo: “l’amore di sé fino alla dimenticanza di Dio o l’amore di Dio fino alla dimenticanza di sé”. In queste parole trovo il senso pieno della lavanda dei piedi: vi si rivela che Gesù ha scelto l’oblio di sé per essere-di-Dio e per essere-dell’uomo. La croce, dunque, nella visuale cristiana, non è essenzialmente limite, ma amore, solidarietà con le vittime, fiducia nella potenza divina, che si manifesta nell’impotenza di chi si lascia crocifiggere per amore.
L’etica dominante è dalla parte del successo personale e non della croce; il Vangelo, invece, pone al centro della vita l’amore crocifisso. Credere in questo amore significa credere che, nel nostro vissuto quotidiano, esiste un altro ordine di verità. La croce mostra l’altra faccia delle cose: dice che la vittoria è nell’oblazione, e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sulla pietra che i costruttori hanno scartato (Mc 12,10). In questo senso, la croce mette in crisi l’ottica del successo come garanzia della verità. Decisivo non è che il nostro servizio abbia successo, ma che in esso siamo fedeli. Il Volto di un Dio che si abbassa ci obbliga a mettere continuamente in discussione le immagini che ci siamo fatte di Lui, che somigliano a Pietro che si ribella di fronte al gesto di Gesù. Per questa ragione la Bibbia non permette di rappresentare in alcun modo Jhwh, perché la Sua vera e unica immagine è l’uomo vivente e, per i cristiani, il Vivente crocifisso. «Vi ho dato un paradigma: perché anche voi facciate come io ho fatto a voi ».
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano