Il tema della Domenica
Riflettere sul senso del battesimo è quanto mai opportuno, soprattutto per chi lo ha ricevuto ancora in fasce, senza una matura coscienza della propria scelta. La crisi odierna della fede, poi, rende questo passaggio assolutamente necessario, perché il battesimo – quello di Gesù e il nostro – non è una sorta di abbellimento o di ornamento della vita cristiana, ma dice qualcosa di decisivo su chi siamo e su cosa siamo chiamati ad essere. Le letture di questo giorno, con il fascino di evocazioni e di simboli che racchiudono, sono particolarmente adatte a immergerci nel mistero profondo di Dio e dell’uomo.
La prima lettura: Is 55,1-11
Per un popolo circondato dal deserto che, giorno dopo giorno, combatte con la steppa arida, cercando di strappare un palmo di terra coltivabile, più che mai l’acqua significa vita. E la sete non è solo il desiderio di soddisfare uno dei bisogni più elementari, ma un grido, spesso assordante e disperato. La Bibbia stessa racconta che, nel deserto, dopo la liberazione dall’Egitto, il popolo protestò contro Mosè e Aronne: «dateci acqua da bere… perché ci hai fatti uscire dall’Egitto, per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?» (Es 17,2-3). E quel giorno, Dio fece scaturire acqua dalla roccia.
La suggestiva lettura odierna, tratta dal profeta Isaia, rappresenta Dio come un venditore di acqua, pane, vino, latte e cibi succulenti. L’invito a comprare senza denaro è rivolto agli esiliati, poveri e straziati dalla fame e dalla sete. La descrizione iniziale, molto realistica, si trasforma però subito in simbolo, lasciando supporre un’altra dimensione della ricerca: quella in cui la sete rappresenta l’anelito e la tensione verso la pienezza di vita, verso una sorgente che disseti. In fondo Colui che l’uomo cerca, nel suo girovagare alla ricerca di una fonte, non è altri che Dio, come sottolinea il Salmo 42: «come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio…». L’orante proietta qui la sua esperienza di ansiosa ricerca di Dio nell’immagine di una cerva assetata; perché, se è vero che l’uomo è sulla terra per dire “acqua, pane, cibo…”, è anche vero che questi piccoli frammenti di pane quotidiano non potranno mai appagare la fame di chi cerca il suo volto: «quando vedrò il suo volto?». (Sal 42).
Per questo, gli esiliati, di nuovo sulla terra, sono invitati a cercare non anzitutto il benessere, ma Dio: «cercate il Signore mentre si fa trovare, invocatelo mentre è vicino» (55,6). Il verbo darash / cercare, che qui viene utilizzato, non implica anzitutto una ricerca intellettuale e neppure un’azione specifica, ma un “habitus”, un modo di porsi davanti a Dio: un rivolgersi a lui con un atteggiamento relazionale che implica abbandono, fedeltà e osservanza dei comandamenti. Nel profetismo questo profondo significato dell’espressione era già presente, ma a partire dall’esilio darash YHWH / cercare Dio assume sempre più una connotazione globale, espressione di una spiritualità che non si esaurisce nel rituale e/o nel singolo atteggiamento, ma s’incarna in una vita di rispetto e obbedienza, di dedizione e amore.
Si comprende, allora, come subito dopo il profeta parli dei pensieri di Dio così lontani da quelli degli uomini e delle sue vie, così diverse. Cercare Dio implica un cambio di prospettiva, l’assunzione di un’altra sapienza, un’altra logica, e l’invito a cercare YHWH significa disporsi a giudicare e ad affrontare gli eventi con il compasso di Dio, senza rinchiuderlo nel proprio piccolo sistema.
Nel testo di Isaia traspare pessimismo e sfiducia: forse ci si aspettava una liberazione da Babilonia più trionfale, un intervento di Dio che facesse giustizia sui nemici, forse – soprattutto in alcune frange più conservatrici – si faceva fatica ad accettare un pagano come liberatore, Ciro di Persia… Il profeta richiama a un’altra sapienza, che sorprende, perché cammina su strade inusitate e apparentemente prive di senso. L’uomo, abituato a imporre il suo metro e assuefatto a un Dio “logico” – creato a propria immagine e somiglianza – si sente destabilizzato. Ma Dio non si serve del compasso dell’uomo. Al credente è chiesto di dar credito a una Sapienza che non va incontro a tutti i desideri dell’uomo, ma rimane ferma nella sua Promessa. Perché «come la pioggia e la neve, scendono dal cielo, ma non vi fanno ritorno senza aver irrigato la terra», così sarà della promessa di Dio.
Il Vangelo: Mc 1,7-11
Gli eventi che accadono nel battesimo di Gesù rappresentano la risposta di Dio alla sete dell’uomo, alla ricerca di senso, l’adempimento della promessa, la manifestazione del senso della storia. Che questo episodio abbia un significato così profondo e importante, lo si comprende fin dalle battute iniziali, che riportano una formula introduttiva piuttosto ridondante: «e avvenne che in quei giorni Gesù venne da Nazareth…».
L’evento del battesimo viene appena accennato, mentre vengono messi in forte rilievo i fatti che lo accompagnano: la lacerazione dei cieli, la discesa dello Spirito e la voce dall’alto. In questi segni si manifesta l’inaugurazione di una nuova fase della storia di salvezza, in cui Dio si impegna personalmente ad aprire la promessa per farla germogliare. Il verbo schizô / lacerare, che il solo Marco utilizza per l’apertura dei cieli ricorda la suggestiva supplica di Isaia, letta nella prima domenica di avvento: «oh, squarciassi tu i cieli e scendessi!».
Il silenzio di Dio è sempre terribile, ma in alcuni momenti diventa insopportabile. Ed ecco che Dio, gratuitamente, ancora una volta, fa il suo ingresso nella storia dell’uomo. Uno scrittore delle origini cristiane – forse Ippolito di Roma – commenta: «Pensa, mio caro, quali e quanti beni avremmo perso se il Signore non avesse ricevuto il battesimo. Prima di questo evento le porte del cielo rimanevano chiuse e le regioni dell’alto erano inaccessibili. Potevamo discendere più in basso, ma non potevamo salire più in alto… In quel momento “i cieli si aprirono…”, furono guarite le malattie della terra e furono rivelate le verità misteriose».
Questa volta, però, l’ingresso di Dio nella storia non è commensurabile con altre venute, perché Dio si impegna nel suo figlio diletto. Il termine ebraico yahid / diletto, più che la predilezione di un figlio rispetto ad altri, esprime l’unicità del rapporto. Gesù è il Figlio, e non ce ne sono altri. È questa, dunque, la risposta di Dio a una storia di infedeltà e di caligine: ancora una volta Dio entra in dialogo con Adamo, lo cerca e apre così la strada a chiunque voglia cercarlo.
È singolare che Marco – a differenza di Matteo – personalizzi gli eventi, lasciando comprendere che il solo Gesù vede l’apertura dei cieli e la discesa dello Spirito. La voce dal cielo non si rivolge ai presenti, ma a lui, esprimendosi in termini di relazione “io”-“tu”: «Tu sei il mio figlio, il diletto; in te mi sono compiaciuto».
Quanto accade sembra essere un’esperienza personale di Gesù, mentre il Battista e le folle vedono solo un uomo che si mette in fila con i peccatori per ricevere il battesimo di conversione. Ma non è proprio qui la sfida della fede? Il Figlio, che ha una peculiare relazione con il Padre, e che viene insediato con una solenne formula di intronizzazione regale («Tu sei mio figlio» del Sal 2,7) si presenta al mondo nelle spoglie di un uomo, in fila con i peccatori. È la logica di Dio. Chi vuole incontrare Dio, ormai, deve discendere nel cuore della terra, lì dove si trova Adamo, ogni Adamo, perché – lo ha scritto Origene – «il Signore nostro non è sceso solo fino alla terra, ma fino nelle profondità della terra (cf. Ef 4,9), e là ci ha trovati inghiottiti e seduti nell’ombra della morte (cf. Lc 1,79). Tirandoci fuori ci prepara un posto, non sulla terra, per timore che siamo di nuovo inghiottiti, ma nel regno dei cieli». Si potrebbe esprimere meglio il senso del nostro battesimo?
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano