Commento alla Parola nella Festa della S. Famiglia di Nazareth /B

Il tema della Domenica

Il miracolo gioioso di una nascita s’intreccia sempre con la preoccupazione e il dolore. E non solo a motivo del parto, che già in sé stesso è gioia e travaglio, ma anche a motivo della vita che inizia, con le sue aspettative e i suoi rischi. Queste dinamiche, proprie della vita naturale, appartengono anche al Progetto di Dio e alla vita di ogni credente. Le letture odierne ci pongono davanti proprio questa tensione tra la Promessa di Dio e la situazione paradossale in cui essa vive giorno dopo giorno.  Contraddizioni e tensioni ci avvolgono nella famiglia e nella società, nel mondo e nella chiesa. Imparare a viverle significa fissare lo sguardo su Colui che è diventato, suo malgrado, “segno di contraddizione”.

Prima lettura: Gen 15,1-6; 21,1-3

L’uomo ha ancora bisogno della storia di Abramo, anche se essa emerge da un antico arcano. Soprattutto l’uomo frettoloso di oggi, che a fatica si ferma a guardare le stelle e a dar credito a una promessa, tanto generica, da sembrare insensata. Eppure quella storia è così genuina e la vicenda di Abramo così paradossale, che anche l’uomo tecnologico è costretto a interrogarsi, perché anch’egli, come Abramo, ha bisogno di sperare e di credere, di contare i giorni e attendere. Una storia trasfigurata appartiene a ogni tempo, purché si sia disposti a tendere l’orecchio per ascoltare, senza la pre-occupazione del cuore e la distrazione della mente.

La storia inizia con una Parola di Dio che si rivolge al patriarca. Il testo dice che «il Signore lo condusse fuori, all’aperto…». Abramo deve dunque uscire dalla sua tenda, come una volta era uscito da Ur dei caldei. Bisogna venir fuori dalla propria esistenza, avere il coraggio di rompere con le proprie paure e le proprie chiusure, con le proprie sicurezze e con i ghetti che ci tengono prigionieri. Uscire da sé per legarsi a Qualcuno, riempirsi di candore e di stupore, accettando l’imprevedibilità di Dio e della vita.

«Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle: così sarà la tua discendenza»: sembra una rassicurazione e, invece, è una sfida, perché la situazione ha un carattere paradossale. Abramo sa – e il lettore con lui – di non avere figli, di vivere come un ramo secco, senza passato (non è più nella sua patria) e senza futuro (la moglie Sara è sterile). Può essere credibile una promessa in una situazione che la smentisce irrevocabilmente nel momento stesso in cui essa viene formulata? Può essere affidabile un Dio che prima toglie e poi promette, prima dissecca il grembo e poi s’impegna a renderlo fecondo? «Abramo credette – continua la storia – e JHWH glielo accreditò come giustizia». Credere è prendere sul serio Qualcuno, un ancorarsi a lui, assumere un atteggiamento di rispetto che dà credito alla sua Parola. Abramo lo mette in atto nella sua relazione con Dio. Passavano i giorni e Abramo aspettava: aspettava e credeva, fino al giorno in cui Dio mantenne la sua Promessa. Un grande testimone dei nostri tempi ha detto: «Dio non esaudisce tutti i nostri desideri, ma mantiene le sue promesse» (Bonhoeffer).

Il Vangelo: Lc 2,22-40

La cornice del racconto evangelico ci presenta la famiglia di Gesù nel contesto dell’osservanza alla Legge di Mosè, che è la legge del Signore (Lc 2,22-23). Secondo la prescrizione del Levitico, quaranta giorni dopo la nascita di un figlio maschio, deve aver luogo la purificazione della puerpera. È in questa cornice che il testo di Luca mette in luce le figure e le parole di Simeone e Anna, che con la loro testimonianza profetica, svelano il senso di ciò che accade: il bambino è qui per la salvezza e lo scandalo di molti. A pochi giorni dalla nascita, viene qui presentato il paradosso del Natale, che le nostre speranze borghesi rivestono sempre di sicurezze confacenti ai nostri bisogni.

È vero: il bambino è qui per la salvezza anzitutto! «I miei occhi oggi hanno visto la tua salvezza», dice Simeone, tenendo il bambino tra le sue braccia. Subito dopo la nascita, l’angelo si era rivolto ai pastori con lo stesso messaggio: «oggi vi è nato un salvatore» (2,11). Ecco la bella notizia del Natale: egli è qui per la salvezza di chi non ha più lacrime, perché sono troppe quelle versate; è qui per chi non si nasconde dietro una patina di ipocrisia e perbenismo: la prostituta della città (Lc 7), Zaccheo il pubblicano ricco (Lc 19); il malfattore crocifisso (Lc 23) …

Ma il bambino di Betlemme è qui anche come «segno di contraddizione», perché il suo messaggio non aggira gli eventi, ma li affronta e li contesta. La Sapienza di Dio contesta la sapienza umana quando questa si fa portatrice di menzogne fabbricate appositamente per sottomettere e sfruttare, dividere e distruggere… Il bambino non è qui per fare da sponda a un sistema di garanzie effimere e aleatorie, funzionali solo alle inquietudini di gente soddisfatta.

Se Gesù salvatore ci obbliga a guardare e ad amare l’uomo reale, che soffre e muore per un pezzo di pane e un sorso d’acqua…, Gesù segno di contraddizione ci dice che non possiamo chiudere gli occhi sulle viltà e non possiamo interpretare il male come se fosse bene, non possiamo approvare tutto… Tutto ciò che lacera le nostre vite appartiene al mistero di salvezza, ma alla nostra responsabilità spetta discernere, volta per volta, la strada del Regno e le scelte che questa strada esige, senza l’arroganza di chi punta il dito sempre sugli altri e mai su sé stesso, ma anche senza viltà e paura.

La festa della famiglia di Nazareth, che celebriamo, ricorda che nel Signore i rapporti vanno vissuti nella libera donazione di sé. Questo significa che, per il cristiano, nel contesto di un nucleo familiare o di un nucleo sociale, la grandezza non consiste nell’affermazione dei propri diritti, ma nel morire perché l’altro/a abbia la vita. Affermare la vita donandola, e non stringendola a sé, è proprio del cristiano. È questa la legge suprema. Ed è questo il «giudizio» del cristiano sul mondo: liberare la famiglia e la società dai camuffamenti operati dalla menzogna del sistema dominante e dall’idolatria dell’«ego». La verità di una vita si misura sui germi di liberazione umana che siamo capaci di riconoscere nella storia e sulla condivisione delle speranze degli ultimi. L’amore incessante per la liberazione dell’uomo – di ogni uomo – è ciò che rende credibile il nostro annuncio cristiano.

Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano