Il tema della Festa
Le letture di questa domenica raccontano di due famiglie, lontane nel tempo, ma vicine nell’arcano progetto divino. La prima, composta di Elkana, sua moglie Anna e il piccolo Samuele, abitava a Rama, una cittadina della regione montuosa di Efraim, dove Rachele un giorno avrebbe pianto i suoi figli in partenza per l’esilio. L’altra famiglia, invece, composta da Giuseppe, Maria e il figlio dodicenne Gesù, abitava a Nazareth, un villaggio della Galilea, poco noto e poco apprezzato. Due famiglie come tante, con problemi di sterilità e attesa, di figli e quotidiana sopravvivenza, che d’improvviso vedono irrompere nel loro destino un mistero che le attraversa. Famiglie comuni che, nel loro andirivieni, incontrano il tempio e il senso della vita.
Prima lettura: 1 Sam 1,20-22.24-28
La nascita di Samuele è avvolta dal mistero, come quella di altri bambini, nati da donne “dal grembo secco”. Anna, infatti, era sterile e, nella cultura del tempo, la sterilità era considerata una vergogna e un castigo di Dio. Senza discendenza, ha ancora senso vivere? La sterile, discriminata dagli uomini e dalla legge, doveva sopportare spesso anche il disprezzo delle persone più vicine. È il caso di Anna, derisa da Peninna, l’altra moglie di suo marito, gelosa della predilezione di Elkana per quella donna dal grembo secco. Elkana «amava molto» Anna, senza però comprenderne il mistero profondo che ogni donna porta in sé. A tal punto che un giorno, pensando di poter lui sostituire il desiderio che una donna ha di un figlio, aveva esclamato: «Non sono forse io per te meglio di dieci figli?».
«Anna era triste, pregava e piangeva…» dice il testo, con una costruzione ebraica che lascia trasparire notti insonni e giorni interminabili. Eppure, questa donna, abbandonata dalla società e resa impotente dalla sua condizione, non si perde d’animo: si presenta nel tempio, davanti a Colui che «si china per rialzare i poveri dalla polvere e proteggere il loro cammino». Crede, e – anche di fronte al vecchio sacerdote Eli che, guardandola pregare, la reputa ubriaca – continua a pregare e a piangere. A Dio, nelle cui mani è il potere della vita e della morte, Anna presenta le sue lacrime, insieme a una promessa: «Se tu, Signore, vorrai considerare la miseria della tua serva e ricordarti di me, se non vorrai dimenticare la tua serva e darai alla tua serva un figlio… io lo offrirò a te, per tutti i giorni della sua vita». A differenza del marito Elkana e del sacerdote Eli, implicati nella storia ma lontani dalla vita, Anna crede e spera, piange e rende Dio responsabile del suo destino.
E Dio si ricorda: il marito «si unì con lei, restò incinta e, a suo tempo, diede alla luce un figlio». Così la sterile partorisce, colei che doveva nascondersi a motivo dei pregiudizi umani e religiosi di un ambiente insensibile ai drammi di una donna, ritrova il senso della sua esistenza, e la tristezza si cambia in gioia. Ma Anna non dimentica la promessa fatta a Dio e, appena il bambino fu svezzato, si reca di nuovo nel tempio per consacrarlo al Signore che glielo aveva donato. È interessante sottolineare come il testo esprime questo patto di fedeltà tra Anna e Dio con un gioco di parole che ne esalta la reciproca dedizione: «Io ho chiesto e Dio ha risposto; ora Dio chiede e io rispondo». Dio e una donna, stretti in un patto mutuo, che si rispettano e si realizzano nel dono scambievole.
Il senso di questo racconto semplice e toccante sta proprio in questa reciprocità oblativa: perché Dio è un Dio che dà e non toglie, fa vivere e non morire, e l’essere umano si realizza quando non converte le persone che ama in proprietà privata, quando non ha paura di far entrare Dio nella sua casa, di presentarsi al tempio, di piangere, pregare e donare, perché Dio è là, dove una donna, un uomo, un figlio, hanno bisogno di rialzarsi dalla polvere e intraprendere il cammino. Dio è là dove la vita diventa dono.
Il Vangelo: Lc 2,41-52
Il viaggio di Maria, Giuseppe e Gesù verso Gerusalemme non ha tanto lo scopo di mostrare l’obbedienza della famiglia di Nazareth alla legge che prescriveva il pellegrinaggio nella festa di pasqua, ma piuttosto quello di portare Gesù nel tempio, la casa del “Padre suo”, dove Gesù pronuncerà le sue prime parole registrate dal vangelo di Luca: «Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ancora il tempio, dunque, come punto focale del cammino di una famiglia, ma questa volta Colui che siede nel tempio, in mezzo ai dottori e ai maestri, non è solo il figlio di un uomo, ma il figlio del Padre, che ascolta e interroga, meravigliando tutti i presenti «per la sua intelligenza e le sue risposte». Questo interesse squisitamente teologico porta Luca a non dilungarsi troppo sui dettagli del viaggio e dello smarrimento. Neppure la preoccupazione dei genitori e altre dinamiche psicologiche devono oscurare l’elemento centrale, che rimane Gesù nel tempio e la sua sapienza che lasciava tutti stupefatti. Il vangelo dell’infanzia lucano si chiude così come si era aperto: nel tempio Zaccaria ricevette l’annuncio della nascita misteriosa di Giovanni e nel tempio Gesù parla del Padre davanti agli occhi stupefatti degli astanti. Ma cosa significa tutto ciò?
Per comprendere la profondità del racconto, possiamo partire dallo stupore che avvolge Maria e Giuseppe, quando trovano Gesù nel tempio in mezzo ai dottori. Questo stupore è espresso da un verbo greco che viene utilizzato anche per indicare lo sbalordimento delle folle di fronte all’insegnamento di Gesù: una meraviglia che porta “fuori di sé”. Rimproverando il figlio, Maria sottolinea i legami di sangue, ma la risposta di Gesù mostra alla madre un’altra strada per comprendere il disegno di Dio sulla storia dell’uomo: il mistero della sua persona.
Maria e Giuseppe dunque, sono chiamati anche loro a fare un viaggio. «Perché mi cercavate?» non costituisce un rimprovero del figlio ai propri genitori, ma indica piuttosto “il luogo” dove cercare. Bisogna uscir fuori di sé per assaporare la sapienza di Dio. L’uomo tenta di rinchiudere Dio dentro il perimetro dei suoi pensieri, delle sue leggi, dei suoi templi: quelli costruiti dalle sue mani. Il tempio dove abita Dio non è costruito con il compasso della sapienza mondana: «Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti; tanto meno questa casa che io ti ho costruito», aveva detto Salomone al momento della costruzione del primo tempio (1Re 8). Nel momento in cui l’uomo pensa di aver afferrato Dio e di averlo messo dalla sua parte, Dio lo abbandona, perché il punto di vista di Dio non lo conosciamo: Dio è sempre più in là. Esperienza ardua, che anche Maria e Giuseppe devono imparare e il testo lo sottolinea, affermando che essi «non compresero la parola che aveva detto loro». Una famiglia – compresa quella di Nazareth – si costruisce anzitutto nella consapevolezza del proprio limite, che non permette l’accesso diretto al mistero dell’altro; l’Altro che è Dio, ma anche il figlio, il padre, la moglie, il marito. Solo il dono permette l’accesso, perché nel dono l’amore non lega a sé ma si mette a servizio, non conquista ma accoglie, non vuole vincere a ogni costo ma si dona nella gratuità. Tra Maria e Giuseppe da una parte e Gesù dall’altra c’è il tempio. Non per dividere o impoverire l’affetto, ma per renderlo più profondo e più libero.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano