Il tema della Domenica
Abba Arsenio, un padre del deserto, pregava così: «Padre santo, nella mia vita non ho fatto niente di buono, ma nella tua misericordia concedimi di rincominciare». L’avvento è l’inizio: un nuovo inizio, per tutti coloro che hanno bisogno di rincominciare. Sarà l’anno di Luca, l’evangelista che forse più di ogni altro ha incarnato la speranza nel cammino dell’uomo. La sua opera (Vangelo e Atti) racconta il viaggio della Buona Novella da Gerusalemme a Roma, sulle strade polverose della Palestina e dell’impero romano, lastricate di potere e di sangue, e tuttavia in grado di accogliere il seme della Parola evangelica. L’avvento ci porta la bella notizia che questo viaggio della Parola continua ancora oggi, sempre uguale e sempre nuovo, nonostante gli inciampi e le cadute, l’arroganza e l’ottenebramento delle coscienze. Il viaggio continua, nella consapevolezza che la Parola ci è stata data perché possiamo far germogliare la vita nei deserti dell’esistenza.
Prima lettura: Ger 33,14-16
La parola di Geremia ci porta idealmente sotto le mura di Gerusalemme, durante l’assedio dei babilonesi. Nel contesto dei capitoli 31-33, in cui è inserito il nostro brano, si parla di distruzioni e uccisioni, di case diroccate e cadaveri sulle strade, perché «Dio ha nascosto il suo Volto» (Ger 33,5). Si tratta di una delle metafore più efficaci, che presenta un Dio lontano dalle città degli uomini. Eppure, persino nei momenti più bui e tenebrosi, segnati dal peccato e dall’infedeltà, emerge sempre un dato nella Bibbia: Dio abbandona lo scanno del giudizio per sedersi su quello della misericordia. In tutta la tradizione biblica (e non solo nei vangeli) YHWH è sempre e solo il Dio della misericordia e la sua ira, che si esprime in termini di giustizia, è sempre premessa e promessa di un bene maggiore. Questo significa che nella Torah e nei Profeti, il castigo non è mai l’ultima parola. Per ogni uomo e per ogni popolo il disegno divino è sempre e comunque un disegno di salvezza. Ecco perché, durante l’assedio, quando la speranza di Gerusalemme stava lentamente morendo, Geremia acquista un campo. Una compera che si effettua con tutte le formalità giuridiche, alla presenza di testimoni e redatta su un documento poi piegato e sigillato… per mostrare a tutti che, dopo l’esilio, arriverà un tempo in cui «si compreranno ancora case, campi e vigne in questo paese» (Ger 32,15); ancora ci sarà il canto dello sposo e la gioia degli invitati alla festa.
In questa luce si comprendono meglio i pochi versetti della lettura di questa domenica. «Ecco, giorni verranno» fa intravedere che si tratta di un annuncio speciale, straordinario. Si parla, infatti, della venuta di un «germoglio di giustizia». Nella Bibbia si parla spesso di germogli, ed è interessante notare che le situazioni foriere di speranze e di frutti abbondanti non vengono rappresentate da una pianta o da un’immagine più poderosa e convincente, ma da un germoglio. La radice verbale appartiene al fenomeno che si verifica quando la pianta spunta fuori dal terreno e inizia quel processo dinamico e misterioso che va sotto il nome di crescita, di sviluppo. Si tratta dell’inizio, senza il quale non c’è crescita. Si deve anche dire che in Israele questo evento è tanto più mirabile, a motivo del clima. Quando la pioggia feconda il terreno, il germoglio sboccia e produce la pianta.
È YHWH che feconda il terreno, facendo scendere acqua dal cielo. Con l’arrivo della pioggia, spunta il germoglio, simbolo vivente della speranza. È la vita che rinasce dalle macerie della storia, come annuncia il profeta Isaia. Dio – solo Lui – è in grado di far risorgere un popolo annientato e disperso, di dare figli alla sterile e futuro a chi non ha più speranza.
Il Vangelo: Lc 21,25-28.34-36
La stessa speranza emerge dalla pagina di Luca sulla parusia del Figlio dell’uomo. Se mettiamo in parallelo il testo lucano con quello di Marco (che probabilmente ne costituisce la fonte), non possiamo trascurare un elemento che emerge con forza: al tema del raduno escatologico degli eletti (Mc) Luca preferisce il tema della liberazione. I segni che ci saranno nel sole, nella luna e sulla terra non devono costituire per i credenti motivo di sgomento e di paura, bensì un segno di speranza: «la liberazione è vicina». Al di là del linguaggio tipico del genere apocalittico, che non va preso alla lettera, ovviamente, ma interpretato per catturarne il senso, la sostanza del discorso è molto chiara: più di Marco e di Matteo, Luca fa del discorso apocalittico una parenesi sulla speranza. Luca incoraggia e stimola. La sua parenesi è volutamente legata a una cristologia che preferisce l’immagine del Salvatore a quella del Giudice. Ecco un tema che percorre in lungo e in largo l’opera lucana: Gesù è venuto per liberare gli oppressi e dare dignità ai poveri. Sin dalla prima pagina, il cantico di Maria e quello di Zaccaria tessono le lodi di Dio, che «ha suscitato per noi una salvezza potente… dai nostri nemici e dalle mani di quanti ci odiano». Per un credente, la speranza è il motore della storia. Bisogna fare attenzione però a non confondere la speranza con l’ottimismo: questo si fonda su ragioni umane, la speranza sulla promessa di Dio, che non viene meno.
Un solo pericolo può sommergere questa speranza: il sonno della coscienza, annebbiata dalle eccessive preoccupazioni per una vita agiata, sommersa dall’angoscia dell’avere sempre di più, dalla cupidigia (tema molto caro a Luca) e dalla ipertrofia dell’«ego». Il «siate svegli, pregando in ogni tempo», offre un sano antidoto al sonno delle coscienze. La preghiera dispone l’uomo a saper riconoscere i segni dei tempi, a saper cogliere il senso profondo degli eventi, a non lasciarsi soggiogare e confondere dal turbinio di parole vuote che viaggiano nel mondo del non senso. La preghiera, afferma Luca – con una delle più belle metafore del suo messaggio – insegna a “stare in piedi” dinanzi al Figlio dell’uomo.
“Stare dritto” è l’atteggiamento proprio di chi non ha paura del giudice, perché Colui che sta davanti non è un giudice, ma un Dio che ci conosce a fondo, grazie a quella relazione autentica e priva di timore che si realizza nella preghiera. “Stare dritto” non è l’atteggiamento arrogante del fariseo che, stando in piedi, ringraziava Dio di non essere come gli altri (Lc 18,11), ma quello di Zaccheo che, stando in piedi davanti a Gesù, mostrava il suo nuovo volto di uomo redento, liberato dalla schiavitù dell’accumulo (19,8). “Stare in piedi” è l’atteggiamento dell’uomo dell’attesa, dell’uomo dell’avvento, che non sta ritto per essere pronto a fuggire, ma per accogliere, senza paura, la novità del mondo che germoglia sotto la coltre di neve. Stare in piedi è accogliere la liberazione aprendo le braccia alla vita umana, con tutte le sue contraddizioni e le sue speranze, come aveva intuito Teilhard de Chardin: «Apri, dunque, le braccia e il cuore; accogli, come il tuo Signore Gesù, l’inondazione della linfa umana. Ricevila, questa linfa, perché priva del suo battesimo, tu appassirai come un fiore senz’acqua; e salvala, poiché, senza il tuo sole, essa si disperderà follemente in rami sterili».
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano