Commento alla Parola nella I Domenica di Quaresima /B

Il tema della Domenica

Il tempo di quaresima, quest’anno, inizia sotto il segno dell’alleanza, del patto che Dio stabilisce con l’umanità e con ogni essere vivente che si muove sulla terra. Il simbolo è un arcobaleno posto tra le nubi. Nel Primo Testamento, il termine tradotto con “arcobaleno” di solito sta ad indicare l’arco di guerra; Dio, dunque, dopo la catastrofe del diluvio, mostra l’intenzione di deporre il suo arco minaccioso e di stabilire con l’essere umano un nuovo patto. Ma l’arcobaleno è anche l’archetipo di tutti i nuovi inizi che avverranno nella storia, posti sotto il segno del dono e del perdono: dalla liberazione dell’esodo a quella dell’esilio, dalla salvezza portata da Gesù a quella escatologica dei cieli nuovi e terra nuova. Anche il tempo di Quaresima, in cui siamo entrati da qualche giorno, può essere letto e vissuto alla luce di un nuovo inizio, perché a ognuno/a è dato di ricominciare sotto il segno di un’alleanza d’Amore.

La prima lettura: Gn 9,8-15

Il brano proposto in Gen 9 racconta l’inizio della creazione nuova dopo la sciagura abbattutasi sulla terra con il diluvio. Il racconto del diluvio è una suggestiva rappresentazione dello sfacelo e della rinascita dell’umanità. La perversione aveva corroso dall’interno l’umanità nelle sue relazioni fondamentali: lotte fratricide (Caino e Abele), tracotanza spregiatrice di ogni vita altrui (canto di Lamech), degrado morale (esseri angelici con le figlie degli uomini)… A poco a poco la storia, creata “buona” da Dio, aveva incominciato a corrompersi, e l’ordine della creazione aveva assunto i caratteri del caos primordiale. Il testo lo metteva in evidenza mediante un significativo parallelismo tra due testi: Gen 1,31 e Gen 6,12. Nel primo si diceva che «Dio vide tutto ciò che aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona», mentre in Gen 6,12 la situazione si è totalmente rovesciata: «Dio vide la terra, ed ecco era corrotta».

Il diluvio – con il motivo ambivalente delle acque – è un battesimo purificatore: la prima umanità muore nel segno della violenza creata dall’essere umano e, dalle sue ceneri, ne nasce una nuova. Non sfugge però la diversità, perché l’alleanza che contraddistingue questa fase nuova della storia è fondata sull’impegno unilaterale di Dio, il quale – senza ambiguità e senza ripensamenti – decide di essere, da ora in poi, il Dio della vita, il Dio-per-l’umanità: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutto nessun vivente dalle acque del diluvio, né più il diluvio devasterà la terra… Quando radunerò le nubi sulla terra e apparirà l’arco sulle nubi, ricorderò la mia alleanza tra me e voi…».

Un passo tratto dal Talmud coglie lo stesso dinamismo quando, descrivendo la giornata di Dio, ricorda che «ha dodici ore. Nelle prime tre il Santo, benedetto egli sia, sta seduto occupandosi dell’insegnamento della Legge. Nelle altre tre egli siede per giudicare il mondo intero. E, non appena vede che il mondo merita di essere annientato, abbandona il seggio del diritto per sedersi su quello della misericordia. Nelle tre successive, sempre seduto, alimenta il mondo, partendo dai buoi cornuti per arrivare alle uova delle pulci. Nelle ultime tre il Santo, benedetto egli sia, scherza col Leviatano, poiché si dice: «il Leviatano che tu hai creato per giocare con lui». Dio, che gioca con i mostri marini e si occupa degli animaletti più insignificanti, è il segnale inconfondibile di un mutamento di rotta: dal seggio del giudizio a quello dell’alleanza perenne e senza pentimenti.

Ma c’è anche un’altra dimensione nel suggestivo passo della Genesi, proposto come lettura d’inizio quaresima. L’alleanza con Noè e con i suoi figli abbraccia le speranze di tutti gli esseri umani e del creato, senza esclusioni: è un patto cosmico e universale, come cosmico è l’arcobaleno che lo contraddistingue. Questa alleanza con la terra e con l’umanità che la abita si renderà poi visibile nella scelta di Abramo e di Israele come popolo di Dio, nel patto con il padre dei credenti e con l’alleanza del Sinai. E tuttavia, l’archetipo di ogni impegno divino è posto proprio qui, all’origine: nell’essere-di-Dio-per-l’umanità e per le speranze per ogni essere che vive sulla faccia della terra. Dio non chiude la sua promessa entro i recinti di una razza, di una religione, di una sapienza… Dio invita tutti a farsi carico dell’umanità e delle speranze umane, ovunque esse si annidino, perché Dio abita proprio lì, non altrove.

Il Vangelo: Mc 1,12-15

Il testo marciano della tentazione di Gesù nel deserto traghetta il messaggio appena ascoltato nel contesto della salvezza neotestamentaria. Il passo è conciso, ma pregnante. Marco non parla di tentazioni specifiche, come gli altri due Sinottici, ma racconta il nudo evento: «stava nel deserto quaranta giorni, tentato da Satana». È interessante notare che la tentazione viene espressa in greco da un participio presente passivo, che rallenta il ritmo ed esprime una durata. Sembra quasi che si voglia presentare la tentazione di Gesù (e dei suoi seguaci) non come un evento puntuale, ma come una condizione di vita. In fondo le donne e gli uomini si trovano sempre di fronte all’alternativa, che è poi la stessa dell’umanità al tempo di Noè: distruggere la creazione di Dio, il suo piano di salvezza, o accettarlo, aiutandolo a fiorire. Il testo di Marco presenta questa alternativa unendo due motivi, con un’associazione paradossale e inaspettata, ma stimolante: da un lato la tentazione nel deserto e dall’altro la condizione paradisiaca suggerita dalla convivenza di Gesù con le bestie selvagge. Il nesso dice, da una parte, che nell’arco della vita umana il progetto di Dio è continuamente in procinto di soccombere, dall’altra, mostra che la vittoria è possibile, il deserto può fiorire, la terra – inondata dalle acque del diluvio – può di nuovo germogliare e il paradiso perduto può essere ancora raggiunto. Recuperare questa speranza non significa sognare. Al contrario, significa credere nella creazione e nella promessa.

L’appello alla conversione, che Gesù rivolge all’inizio del suo ministero, è un invito a prendere sul serio questo progetto, a ritrovare la relazione fondamentale, che fa vivere, a cominciare di nuovo nel segno della creazione nuova. È per questo che la tentazione è associata al deserto, il luogo dove tutto aveva avuto inizio, e dove Israele aveva stretto un patto d’amore con il suo Dio: «Io mi ricordo dell’affetto della tua giovinezza, del tuo amore da fidanzata, quando mi seguivi nel deserto, in una terra non seminata» (Ger 2,2). Il deserto riporta l’essere umano alle sue origini, allo spogliamento di sé e alla fiducia incondizionata nell’autore della vita.

L’appello alla conversione è un invito a ricominciare proprio dalla relazione fondamentale che ci costituisce. Ricominciare, allora, significa lasciarsi progettare sempre di nuovo, secondo il piano di Dio. Come dopo il diluvio. Bisogna, però, ricominciare ogni giorno; non basta una volta per tutte. Lo avevano compreso i padri del deserto, i quali raccontano come una volta abba Arsenio, assalito dai demoni, gridasse: «O Dio, non abbandonarmi! Non ho fatto niente di buono davanti a te, ma nella tua bontà concedimi di ricominciare». Concedimi di ricominciare è la preghiera dell’uomo che sa cogliere nei suoi spazi, segnati dal peccato, un tempo di grazia e d’attesa, donatogli da Dio, per riprendere il cammino, giorno dopo giorno. «La conversione infatti è sempre una questione di tempo: l’uomo ha bisogno di tempo… Ci faremmo un’immagine dell’uomo assolutamente errata, se pensassimo che le cose importanti della vita possono realizzarsi immediatamente una volta per tutte. L’uomo è fatto in modo tale che ha bisogno di tempo per crescere, maturare… Dio lo sa meglio di noi e per questo aspetta» (Louf).

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano