Commento alla Parola nella I Domenica di Quaresima /C – 9 marzo 2025

Il tema della Domenica

Esistono momenti particolarmente intensi, in cui – più che in altre occasioni – la vita rivela noi a noi stessi. Può trattarsi talvolta di situazioni drammatiche, talaltra di giorni faticosi o, ancora, di periodi ordinari, ma carichi di senso. Non importa: siamo messi davanti a noi e alle nostre responsabilità, nella consapevolezza che in quella decisione, che ci accingiamo a prendere, si gioca molto del nostro presente e del nostro futuro. Sono i momenti che siamo soliti definire “di prova”.

Nel linguaggio corrente, la prova è quasi sinonimo di “tentazione” e di spinta al peccato, mentre il corrispondente termine greco peirasmos ha il senso di una “verifica”: un evento che ci permette di appurare chi siamo, dove andiamo e quali siano le ragioni profonde del nostro agire. Il tempo di quaresima ci richiama a questa verifica, senza la quale, la nostra vita rischia di viaggiare nel vuoto.

Prima lettura: Dt 26,4-10

La prima lettura ci presenta una dimensione che non concerne di per sé il tema della prova, ma ne è in qualche modo la premessa, il presupposto necessario perché si tratta della professione di fede di Israele, pronunciata all’interno di un’azione liturgica. Siamo nella festa annuale di Shavuôt, la festa delle Settimane (sette settimane dopo la Pasqua), in greco Pentecostes. Nel momento liturgico che si svolgeva nel tempio, il credente israelita confessava Jhwh come il Dio dell’esodo, il Dio che libera. L’esodo non è uno dei tanti atti di liberazione e neppure solo il primo di una serie: è l’evento originario, l’atto salvifico per eccellenza, che fonda Israele come popolo libero e Yhwh come il Dio che ha realizzato la libertà del suo popolo. Come tale, l’atto di liberazione dell’esodo è paragonabile alla creazione, Dio trae fuori dal caos un popolo che gli appartenga.  Il primo capitolo della storia della salvezza, dunque, testimonia che solo un popolo libero può essere “soggetto” di una storia e la libertà offre non solo la possibilità di scelta, ma la stessa dignità. Per il faraone è fondamentale che Israele rimanga schiavo; per Dio è basilare che Israele diventi libero e Lo scelga nella responsabilità.

Ma esiste un altro aspetto fondante che introduce alla comprensione della Parola odierna: si diventa veramente liberi quando si diventa responsabili della propria e dell’altrui libertà. In altre parole: Israele viene liberato dalla «servitù» per il «servizio» di Dio e dei fratelli. È il servizio a Dio e al prossimo l’antidoto all’idolatria di sé e dei numerosi idoli che affollano la vita umana. Continuamente tentato di ritornare schiavo degli idoli, il popolo si mostra autenticamente libero quando si impegna in una storia di appartenenza e, nella prova, resta fedele all’impegno preso e all’alleanza stipulata con il suo Dio.

Il Vangelo: 4,1-13

Nel vangelo di Luca, il racconto delle tentazioni celebra proprio la fedeltà di Gesù, uomo libero e liberante. Il «figlio dell’uomo» tentato a idolatrare se stesso e gli idoli fabbricati dai figli degli uomini, vince sul tentatore e resta fedele a Dio e all’uomo. Luca afferma chiaramente che Gesù è tentato in quanto figlio di Adamo (a differenza di Matteo, la genealogia di Gesù in Luca risale fino ad Adamo). Ha voluto essere provato come ogni uomo. Ai più potrebbe sembrare poco dignitoso che il «figlio di Dio» venga annoverato tra gli empi e i senza-Dio: «annoverato tra i malfattori», dirà Luca nel racconto della passione (Lc 22,37).  Lo stesso Giovanni Crisostomo commenta: «Come non stupirci al vedere che lo Spirito conduce Gesù nel deserto, per essere tentato?». Gesù viene tentato, dunque, e, pur essendo Figlio, dovette imparare la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo, commenta l’autore della lettera agli Ebrei (5,8).

Sarà proprio nel momento supremo, nell’ora della passione, che Gesù vincerà la tentazione, rimanendo fedele a Dio e all’uomo! Nel vangelo di Luca, le tre tentazioni sono strettamente legate a quell’ evento decisivo, come lascia presagire l’ultimo versetto del racconto odierno, che annuncia il ritorno del tentatore «al momento fissato». Questo momento è l’ora della croce, con l’ultimo attacco frontale, la tentazione suprema, che metterà a dura prova la fedeltà di Gesù. Quando tutto crolla è più difficile rimanere. Bonhoeffer scriveva: «Noi siamo cresciuti nell’esperienza dei nostri genitori e dei nostri nonni, secondo la quale l’uomo può e deve progettare, costruire, plasmare la sua vita con le sue proprie mani, secondo la quale esiste nella vita un fine, che l’uomo deve scegliere e impegnarsi a raggiungere con tutte le sue forze. Oggi, l’esperienza nostra è che non possiamo fare progetti neppure per l’indomani, che nella notte viene distrutto ciò che si era costruito nel giorno, che la nostra vita – a differenza di quella dei nostri genitori – è informe o, se non altro, frammentaria. E tuttavia, nonostante tutto questo, dico e affermo che non avrei voluto e non vorrei vivere in un tempo diverso dal nostro, anche se esso disprezza e calpesta la nostra felicità esteriore. Più distintamente che in altre epoche, noi siamo in grado di vedere che il mondo è nelle mani di Dio».

Riflessioni di estrema attualità, se pensiamo al pessimismo diffuso sul nostro futuro e su quello dei nostri figli. Eppure, è proprio questa fiducia che Luca infonde nei suoi lettori, nel terreno specifico delle tentazioni e in quello più ampio della vicenda di Gesù. Sulla croce, la fedeltà di Gesù testimonia che una prova vissuta per amore (amore di Dio e amore dell’uomo) è feconda anche se devastata dal patire. Nella prova possiamo ancora piantare e costruire, vivere e sperare.

Esiste una sola maniera di dare senso a ciò che siamo e al negativo della vita: vivere la vita come dono e servizio, alla maniera di Cristo. I capi, sotto la croce, grideranno: «Ha salvato altri, salvi se stesso!». E i soldati: «Se tu sei il re dei giudei, salva te stesso». E anche uno dei malfattori lo interpella: «Salva te stesso e noi» (Lc 23,35-39). Gesù non risponde e nella prova rimane fedele all’amore, perché «l’amore comincia dove finiscono le corazze dell’io. Quando l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia, effimera o eterna. Quando sono pronto ad accettare persino la condanna eterna per amore di colui / colei che amo… Occorre passare attraverso la morte per raggiungere l’amore» (Yannaras).

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano