Commento alla Parola nella II Domenica del Tempo Ordinario /C – 19 gennaio 2025

Il tema della Domenica

Si riprende oggi il tempo conosciuto nella liturgia come “tempo ordinario” perché la festa è necessaria, ma ha bisogno dell’ordinarietà per trovare spazio e senso. E, nell’ordinarietà della vita, uno dei simboli più affascinanti e suggestivi è quello nuziale, proposto dalle letture odierne. È significativo che, dopo il periodo natalizio, si ricominci proprio da qui: da quella intensa relazione d’amore, che si esprime nella sponsalità. In fondo, il matrimonio appartiene agli eventi quotidiani, “ordinari”, che si tramandano di generazione in generazione, eppure l’amore che in esso si esprime contiene il fascino di un mistero che i travagli e le crisi della vita matrimoniale non riescono a spegnere. Nel Primo e nel Nuovo Testamento le nozze costituiscono una delle chiavi ermeneutiche fondamentali per comprendere l’economia della rivelazione e l’agire di Dio verso il suo popolo. I testi della liturgia odierna ne sono una testimonianza.

Prima lettura: Is 62,1-5

Le immagini presenti nella prima lettura, tratta dal terzo Isaia, appartengono alle pagine più toccanti della letteratura biblica. Scritte in un’epoca di duro lavoro, dopo l’illusione post-esilica che tutto sarebbe ripartito come per incanto, esse si propongono di consolare e incoraggiare i reduci da Babilonia nella ricostruzione della vita sulla terra dei padri.

Il testo incomincia con la nota che il silenzio di Dio è finito, perché egli fa sentire ancora la sua voce. Quante volte gli uomini hanno lamentato il silenzio di Dio. Uno di loro, in un canto straziante, che condensa efficacemente i tanti salmi biblici, esclama: «Tu taci proprio davanti a quegli avvenimenti, a quelle azioni, a quegli uomini che ci opprimono o ci esaltano, e ci rendono inquieti e dubbiosi. Taci di fronte a tutto quello che io ti dico e non rispondi alle mie domande; i miei colloqui con te sono mutili; non dici nulla di fronte al mio agire, buono o cattivo che sia. Non si direbbe che tu mi ascolti quando io ti parlo. Saremmo tentati di pensare che tu non ne vuoi sapere nulla…».

Eppure, se Dio tace, è solo perché la sua Parola sia di nuovo desiderata, cercata, voluta, perché Dio non può stare in silenzio davanti all’angoscia e all’umiliazione del suo popolo, anche se questa condizione è frutto dell’insipienza umana. E Dio torna a parlare: non come un marito-padrone, crucciato e vendicativo, ma come uno sposo.

La nuova condizione è espressa dai nomi simbolici attribuiti alla terra e ai suoi abitanti: quella che si chiamava “Abbandonata, Devastata” torna ad essere “Mia Delizia e Sposata”. Con un sorprendente e voluto contrasto, la sposa adultera viene ancora chiamata “vergine”. Riecheggia qui la storia di Osea e sua moglie, con il carico di menzogne e tradimenti, riappacificazioni e paure. È interessante notare come il testo di Isaia insista sul fatto che è “il creatore” stesso a ricostruire quella relazione “verginale”, interrotta dai giorni dell’adulterio: «Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo creatore». Paradossalmente, la verginità perduta, invece di distruggere un rapporto, esalta la potenza creatrice di Dio che fa nuove tutte le cose. È l’amore di Dio che crea nuovamente la bellezza della sposa: qualcosa che solo lui può. L’essere-per-l’altro/a di Dio, induce a ri-creare quanto è stato distrutto, in assoluta fiducia che questa è la sola strada della vita, perché è la sola strada dell’amore. L’essere-per-l’altro/a di Dio significa assumere l’essere umano non in ragione della sua coerenza, ma in assoluta gratuità, nella speranza che un giorno la gioia sponsale potrà essere modulata in tutte le sue melodie.

Il Vangelo: Gv 2,1-11

Con l’avvento dei tempi messianici, infatti, quella gioia arriva alla pienezza e il racconto del segno di Cana lo sottolinea con dovizia di simboli e di rimandi. Anche nei sinottici Gesù presenta la novità dei tempi messianici con simboli nuziali. Come quando, ad esempio, parla dei discepoli che non possono digiunare «finché lo sposo è con loro», o come quando paragona il Regno a un re che approntò «le nozze per il suo figlio». E, tuttavia, il segno di Cana è in qualche modo unico nel suo genere, e non ha paralleli nei vangeli sinottici. In quanto primo dei segni giovannei, costituisce la porta d’ingresso alla comprensione degli altri: è veramente la chiave ermeneutica, che legge in termini di gioia nuziale il tempo del Messia. E che il clima di questo racconto giovanneo sia quello festoso delle nozze, lo rivelano diversi elementi.

Il primo è un’indicazione di tempo, il terzo giorno, con cui inizia il racconto. Si potrebbe vedere qui l’approdo dei quattro giorni menzionati nel capitolo precedente di Giovanni e considerare, dunque, questo terzo giorno come il settimo (4+3), il giorno di festa in cui Dio portò a compimento la creazione. In effetti nella Genesi, il settimo giorno non ha il senso del riposo – come lo si intende usualmente – ma del compimento, in cui Dio rende fecondo il lavoro giornaliero dell’uomo protratto per sei giorni della settimana. Il settimo è il giorno della vita che irrompe nel limite (il numero 6 simboleggia l’incompiutezza umana), aprendo lo spazio a Dio e alla sua opera di salvezza. Ma, alla luce della Pasqua, il terzo giorno è soprattutto il giorno della risurrezione, della vittoria della vita sulla morte.

Il vino abbondante (si tratta di circa 400-700 litri) è un altro segno della pienezza messianica, con il suo carico di futuro e di speranza. Il vino richiama non solo il clima festoso di un banchetto, ma nella Bibbia è spesso menzionato come uno dei segni della benedizione che accompagna i giorni del Messia. Il profeta Amos presenta il tempo messianico come un tempo in cui «i monti stilleranno mosto». Alla luce di tutto questo, si comprende meglio il senso racchiuso nelle parole della madre di Gesù: «non hanno più vino». Non è solo una riflessione sull’inadempienza dei riti giudaici, come spesso viene inteso, ma è soprattutto la constatazione del limite umano, di una vita che obbedisce ai suoi ritmi e alle sue leggi, senza che i conti tornino. Bisogna partire da qui per assaporare la trasfigurazione operata dalla speranza: solo chi sa contare i suoi giorni può sperare nel compimento dell’esistenza.

La madre di Gesù è la donna capace di aprire la situazione di limite al dono di Dio. Mai chiamata con il suo nome nel Vangelo di Giovanni, ma sempre vista in relazione al figlio, la madre di Gesù rappresenta i veri credenti, la chiesa dei discepoli, che sanno dischiudere la caducità umana alla speranza di Dio. È per questo che, nel Vangelo di Giovanni, sarà menzionata ancora ai piedi della croce, quando finalmente tutto «è compiuto». In chi apre la sua vita alla dimensione di Dio, niente ha una fine, ma solo compimento.

Gesù «manifestò» a Cana «la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui» è la degna conclusione di un racconto di nozze che apre alla speranza. Nell’odierno diffondersi della crisi che – al di là delle manifestazioni congiunturali – appare sempre come crisi dell’essere umano alla ricerca di senso, rimane la speranza della gestazione del Messia da parte dell’umanità redenta: «quando la donna partorisce è afflitta perché è giunta la sua ora, ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione, per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21). Non è questo il compito della Chiesa? Non siamo chiamati tutti a testimoniare che la sofferenza e la crisi sono gestazione di una partoriente e non rantolo di un morente?

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano