Commento alla Parola nella II Domenica di Pasqua /B

Il tema della Domenica

«È la fine. Per me, è l’inizio della vita». Queste parole, pronunciate da Dietrich Bonhoeffer prima della sua esecuzione, la mattina di domenica 8 aprile 1945, ottava di pasqua, sono a mio avviso uno dei più bei commenti alle letture di quest’oggi. Perché la maturità della fede si misura non sulle ali del successo e della riuscita personale o sullo splendore di grandi parate che spesso tintinnano di vuoto, ma sulla testimonianza di chi muore per amore della giustizia e della verità, nella consapevolezza che il chicco di grano caduto in terra porta molto frutto. La fede vive soprattutto nella testimonianza di chi, senza vedere, sa credere che in Cristo anche la fine ha un senso.

Seconda lettura: 1 Gv 5,1-6

Di questa fede matura parla la prima lettera di Giovanni, che ci accompagnerà in questo tempo pasquale. Gli scritti giovannei richiedono tempo, perché lo stile è contemplativo e procede a circoli concentrici o a spirale. Le immagini e i concetti ritornano continuamente, mai però uguali a sé stessi. Potrebbe sembrare solo un’osservazione di forma e invece racchiude una profonda verità cristiana, perché il cammino di fede procede alla maniera dello stile di Giovanni. Bisogna ritornare sugli eventi più volte, leggendoli sempre da una prospettiva nuova, senza fretta, sapendo che la verità è un dono che l’uomo scopre giorno dopo giorno, alla luce di esperienze sempre nuove dello stesso Dio.

In questa luce possiamo meglio comprendere il testo della prima lettera di Giovanni che ci viene offerto nella seconda lettura. Il nucleo centrale del discorso è la vittoria sul mondo (3 volte in pochi versetti!). Il mondo, in Giovanni, ha diverse accezioni, e quando viene utilizzato con un significato negativo, designa la menzogna del mondo che si oppone alla verità di Dio. Come avviene oggi nelle nostre comunità, nella chiesa giovannea andavano insinuandosi sempre più dei criteri mondani di valutazione che soppiantavano i criteri evangelici. Giovanni ricorda a tutti che la logica del mondo viene sconfitta solo dalla fede: «questa è la vittoria che ha vinto il mondo, la nostra fede». Non è strano che il verbo greco sia qui all’aoristo, perché si tratta di qualcosa che è già avvenuto. È facile capire che Giovanni ha in mente l’evento della croce, anche perché, qualche versetto dopo aggiunge un riferimento all’acqua e al sangue, che richiama la scena della crocifissione, lì dove si dice che dal costato di Cristo «uscì sangue e acqua» (Gv 19,34).

Nella prospettiva giovannea, dunque, la salvezza dell’uomo è legata allo sguardo verso il crocifisso, Colui che è stato innalzato. È la croce il trono glorioso da cui regna Dio, perché la croce è il segno del suo amore. Non ci sono altri criteri per valutare le vittorie e le sconfitte della chiesa e dei singoli credenti. È per questa ragione che il nostro testo dichiara l’amore verso Dio come criterio di verifica dell’amore fraterno. Fede e amore sono inseparabili nella teologia giovannea e, se da un lato Giovanni insiste sull’amore dei fratelli come criterio per conoscere chi ama veramente Dio, dall’altro afferma – e lo fa con forza nel testo proposto nella liturgia odierna – che solo la fede nel Dio di Gesù crocifisso dà la capacità di amare non solo a parole, ma nei fatti e nella verità. Solo la fede dà senso al morire. Una comunità cristiana che cerca la vittoria nel numero e nel successo, nella visibilità e nell’appoggio dei potenti di turno tradisce la croce. Una comunità che si affida alle casse di risonanza per vincere la morte fallisce. La fede che vince il mondo è l’amore crocifisso, potenza di Dio per la salvezza degli uomini. In fondo, è il senso delle parole di Bonhoeffer, citate prima: «È la fine. Per me, è l’inizio della vita».

Il Vangelo: Gv 20,19-31

Il brano evangelico è tratto dalla conclusione di Giovanni (il capitolo 21, che segue, è un epilogo, unito ai venti capitoli precedenti da fili piuttosto tenui) e s’incentra ancora sulla fede come risposta definitiva all’annuncio del Vangelo. Quando si parla di Giovanni, si pensa istintivamente al comandamento dell’amore, e non senza qualche ragione. E tuttavia, bisogna anche ricordare che, sia sul piano della quantità che su quello della qualità, il verbo credere ha in Giovanni un’importanza decisiva. A tal punto che – a conclusione del Vangelo – lo scopo di tutta l’opera viene riassunto proprio nelle parole ascoltate oggi: «questi (segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e, credendo, abbiate la vita nel suo nome». Per Giovanni il credere (viene preferito di gran lunga il verbo al sostantivo) non è uno dei molteplici aspetti della vita cristiana, ma l’atteggiamento fondamentale da cui tutto dipende. Imparare a credere costituisce il senso della vita.

Occorre imparare a credere, anche se la fede è un dono. I due aspetti non si elidono a vicenda e l’episodio di Tommaso lo mostra in modo vivace e convincente. Tommaso rappresenta le generazioni dei credenti che non hanno visto Gesù, ma rappresenta soprattutto coloro che fanno fatica a credere, perché non riescono a separarsi dal Venerdì santo. Tommaso ha ancora nella mente i chiodi conficcati, il costato squarciato… Alla stessa maniera di Maria di Magdala, che cercava il suo Signore nel sepolcro. Dove altro si può cercare un morto? Ambedue sono lontani dalla verità di Dio, perché troppo ancorati alla verità dell’uomo. Nella ricerca del senso degli eventi si trovano davanti alla cruda realtà della vita.

Nel quarto vangelo, soprattutto Tommaso viene presentato come l’uomo che s’interroga sul senso del vivere e del morire, senza trovare una vera risposta. La prima volta che appare nel racconto evangelico, Gesù si trova in una situazione di pericolo, perché vuole tornare in Giudea, pur sapendo che i giudei cercano di ucciderlo. In un moto di inconsapevole verità, Tommaso si rivolge agli altri dicendo: «Andiamo anche noi a morire con lui» (11,16). Più tardi, a Gesù che parla della sua croce e della sua morte come un andare al Padre, Tommaso chiede: «Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo conoscere la via?» (14,5). Da queste brevi comparse Tommaso appare come il credente che interroga e si interroga sul senso del credere, senza riuscire a trovare la risposta. È lontano dal comprendere che il senso del mistero è in Colui che gli ha rivelato di essere la via, la verità e la vita. Non riesce a penetrare il mistero e, come Maria di Magdala, rimane all’esterno: «se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò». Da uomo che fonda la verità sull’incontestabilità dell’esperienza umana, egli sa che un costato squarciato può solo significare la fine. Nient’altro.

In fondo, percepisce il paradosso, senza arrivare a una risposta. Il paradosso è tutti i giorni sotto i nostri occhi: da una parte affermiamo che Cristo è risorto e dall’altra constatiamo che nel mondo regna la morte. Tommaso rappresenta tutti coloro che non sanno andare oltre la notte del venerdì santo, perché troppo grande è lo scandalo del male. La richiesta di Gesù a Tommaso è quella di credere nonostante: «beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno». Credere senza vedere significa fare affidamento su Dio più che sull’esperienza oggettiva dei fatti; significa sapere che c’è un senso nelle cose, perfino lì dove è irraggiungibile con le sole armi della ragione. Un senso che non è fuori, ma dentro gli eventi e che si raggiunge quando si ha il coraggio di contestare i fatti, di farli germogliare, fissando lo sguardo sui germi di liberazione che nascono sui tronchi secchi.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano