Il tema della Domenica
Ci sono momenti nella vita in cui si ha bisogno di ricapitolare ogni cosa, portando tutto all’unità. L’esperienza dell’uomo è segmentata, frantumata, senza l’incanto dell’insieme. Si vive all’insegna dell’avvicendarsi mutevole degli eventi e dei progetti, sapendo che niente e nessuno è da sempre e per sempre, niente e nessuno è eterno. Eppure, per chi crede, la Pasqua è una Parola nuova sulla vita e sulla morte, sul giorno di ieri che è passato e sul domani che verrà. La Pasqua è il primo giorno della settimana, del tempo nuovo che irrompe nel continuo viavai dell’uomo. Nell’eternità di Dio – il solo che tiene nelle sue mani l’alfa e l’omega, il principio e la fine – l’uomo trova il suo senso e il suo riposo.
Seconda lettura: Ap 1,9-11a.12-13.17-19
La cristofania che apre il libro dell’Apocalisse potrebbe essere ambientata nel giorno di pasqua o, comunque, nella domenica, giorno del Signore. In ogni caso, quello che accade in questo giorno è assolutamente fondamentale per la vita e per la fede, e l’autore del libro lo mostra dicendo che Giovanni ode una voce e ha una visione.
Anzitutto la voce, perché l’esperienza pasquale è una Parola di rivelazione sulla vita dell’universo e dell’uomo, delle comunità e dei singoli credenti. Una Parola che va ascoltata e accolta senza timore, perché è una Parola che dà la certezza che tutte le cose hanno un senso. L’uomo ha bisogno di vedere ciò che ama, ma l’amore non può fare a meno della Parola e soprattutto del mistero che è racchiuso in essa. Per questo, forse, Giovanni ode la voce «dietro di sé». Un particolare inutile o un rimando al mistero di Dio, alla sua imprevedibilità e alla sua inafferrabilità? L’esperienza pasquale non è in fondo la serena certezza che tutto ha un senso, ma che questo senso ci è nascosto? Abbiamo la sapienza del giorno dopo, ma quello che ci sta davanti ci sfugge. Il senso è in Dio e nella sua Parola: questo ci deve bastare.
La visione che segue esplicita la Parola, presentando il Cristo pasquale con in mano le chiavi dell’Ade, il regno dei morti. In tutta la tradizione antica, l’Ade è il luogo dove l’uomo non è pienamente uomo, in cui le aspirazioni umane vengono contraddette, umiliate, sepolte. Ebbene, è proprio nel regno della morte che scende Cristo, perché in suo potere sono le chiavi di Ade. Anche la Prima lettera di Pietro mette in evidenza l’annuncio pasquale di Cristo che scende nel Regno dei morti, facendo eco alla parola di Pietro, riportata negli Atti: «Dio lo ha risuscitato sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo trattenesse» (At 2,24). Una preghiera pasquale della liturgia mozarabica commenta: «Veramente santo e veramente Figlio di Dio è il Cristo, che salì sul patibolo della croce affinché, nella sua morte, la morte perdesse tutte le sue forze. Discese agli inferi per estrarre vittorioso l’uomo decaduto per l’antica colpa e fatto schiavo del regno del peccato, e per spezzare con mano potente le serrature delle porte e aprire a quanti l’avrebbero seguito la gloria della risurrezione».
Il Cristo risorto che spezza le serrature delle porte è una bella metafora della vita che irrompe dove nessuno può entrare: una vita che nessuna chiusura umana ha il potere di lasciare fuori. Giovanni Crisostomo, nelle sue omelie sul vangelo di Giovanni, lo aveva espresso con tutta chiarezza: «Il combattimento di Cristo e quello del cristiano è un combattimento contro la morte». Una lotta contro la morte e contro tutte le sue anticipazioni che sono la paura, l’odio, le malattie, le oppressioni, la fame, l’estraneità reciproca, le violenze palesi e nascoste, e così via. Il cristiano è sempre là dove si combatte una battaglia contro la morte, nella consapevolezza che Cristo l’ha già vinta. La morte tenta di accerchiarci ogni giorno. Il potere della morte attinge sempre nuova linfa dalle armi improprie con cui essa viene affrontata. Cristo ci ha insegnato come sconfiggere la morte.
Il Vangelo: Gv 20,19-31
Nel Vangelo di questa domenica pasquale, il messaggio della vittoria sulla morte è circoscritto da una cornice temporale comprendente due eventi, che si svolgono a otto giorni di distanza l’uno dall’atro.
Il primo avviene alla «sera del primo giorno dopo il sabato» e inizia con la descrizione del luogo dove i discepoli si trovavano radunati. Gesù è assente e le porte sono sbarrate per paura dei giudei. Il simbolismo della porta era molto conosciuto nell’antichità, sia perché i miti dell’antico Oriente insistevano molto non solo sulle porte del cielo e su quelle degli inferi, ma anche sulle porte della città e a quelle del tempio. L’idea della porta richiama il confine, la frontiera: essa permette l’incontro, lo scambio e il confronto, ma anche lo nega. È nella situazione di chiusura, che non ammette confronto, perché non accetta rischi, che si trovano i discepoli quando viene Gesù.
Il fatto di stare insieme in uno stesso luogo allude certamente alla dimensione ecclesiale: una chiesa rinchiusa che si sente assediata dal mondo ostile. Anche lo stile letterario che descrive l’evento risente inizialmente di un’atmosfera pesante che s’illumina solo al momento in cui Gesù entra. In effetti, in quasi tutte le scene pasquali il narratore rileva che Gesù viene (tre scene su quattro) e, nel momento in cui viene, tutto s’illumina, tutto si mette in movimento. Non si sottolinea l’apparizione, ma la venuta, come quella di un comune pellegrino, perché chi viene non s’impone, ma si propone. Colui che viene non si serve della luce abbagliante della trascendenza per farsi riconoscere, ma dell’umile ricerca della fede. Chi viene s’incarna nel quotidiano e implora disponibilità. Gesù viene e le porte si aprono, non solo perché i discepoli sono mandati al mondo («come il Padre ha mandato me, così io mando voi»), ma soprattutto perché ricevono in dono la possibilità di una relazione filiale con il Padre e di un rapporto dinamico con lo Spirito («ricevete lo Spirito Santo»).
Il secondo evento, «otto giorni dopo», porta le fattezze del discepolo arroccato nelle sue certezze. Tommaso si fida più della propria ricerca che della testimonianza altrui. E, in effetti, a pensarci bene, non ci sono nel vissuto quotidiano di ciascuno di noi cento motivi per credere e cento per non credere? Al rischio della relazione e del confronto sulla base di una Parola, non è preferibile forse la sicurezza del visibile e del tangibile o la custodia delle proprie granitiche certezze?
Ma anche Tommaso è invitato a uscire, come Abramo, perché la fede non è tale se rimane nel chiuso. Bisogna uscire perché – commentava Mazzolari – «i morti vogliono pietà; il Vivente l’audacia… Le nostre civiltà, le nostre culture, le nostre tradizioni, le nostre grandezze, persino le nostre basiliche possono essere divenute il luogo dove gli uomini di un’epoca l’avevano deposto. Il comandamento è un altro: “Andate a dire…”. Dove? Dappertutto: in Galilea e in Samaria, a Gerusalemme e a Roma, nel cenacolo e sulla strada… Ovunque l’uomo pianta la sua tenda, ovunque vive la sua giornata di fatica e d’avventura, dove spezza il suo pane e costruisce le sue città, piangendo o cantando, sorridendo o imprecando…». Questa è la sfida della Pasqua, anche oggi, dopo tanti secoli dalle origini.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano