Il tema della Domenica
Nel travaglio dell’esistenza, oggi la speranza non è di casa. Non solo a motivo delle armi nucleari o batteriche, delle inimicizie tra civiltà e nazioni o della crisi del mito del progresso, ma anche a motivo dei semi di distruzione che albergano nel profondo di ciascuno. La disillusione pervade individui e comunità, ed è diffusa un’inquietudine profonda, una stanchezza mortale. Viene meno la speranza e cresce la paura. Le letture di oggi, belle e impegnative, ci chiamano a confrontarci con questa notte della speranza, senza finzioni e senza fughe nell’aldilà, ma anche nella consapevolezza che la sapienza di Dio va cercata dentro lo scandalo, dentro la notte della creazione e della creatura.
La prima lettura: Gn 22,1-2.9a.10-18
Il racconto conosciuto come “il sacrificio di Isacco” è uno dei testi più affascinanti e suggestivi della letteratura mondiale. Non sempre la bellezza si sposa con la profondità, ma questa pagina della Genesi è un capolavoro letterario e di fede.
Tutto inizia con una nota che è inquietante: «Dio mise alla prova Abramo». In realtà, tutta la vita di Abramo era stata una prova: la partenza dalla terra verso un paese sconosciuto, la sterilità di Sara, la promessa di una discendenza in vecchiaia, l’attesa… E, sempre, la risposta di Abramo era stata la stessa: credere: «il tempo passava, la possibilità rimaneva: Abramo credeva; il tempo passava, la possibilità svaniva: Abramo credeva. Ci furono altri uomini che pure vissero nell’attesa… ma sprofondarono nello sconforto…. Di Abramo non abbiamo nessuna lamentazione. Non contava con malinconia i giorni, mentre il tempo passava veloce; non osservava sua moglie con occhio sospettoso, per vedere se invecchiava; non fermava la corsa del sole, per mantenere Sara giovane e la sua speranza possibile; non faceva assopire il suo sconforto con un triste canto. E Abramo divenne vecchio e Sara fu schernita nel paese… Che cosa significa essere l’eletto di Dio? Significa vedere svanire nella giovinezza l’attuazione dei desideri, per essere esauditi nella vecchiaia con grande difficoltà? Eppure Abramo credette» (von Rad).
Ma un giorno venne il momento cruciale, la prova suprema: quando lo stesso Dio, che una notte lo aveva portato fuori della tenda per fargli ammirare il cielo stellato – metafora della futura ineguagliabile discendenza – lo condusse nella notte oscura, senza stelle e senza futuro, chiedendogli l’unico figlio che aveva. L’impensabile avviene: con l’ordine della partenza dalla terra ad Abramo era stato chiesto di immolare il suo passato, ora gli viene chiesto il sacrificio del futuro, della speranza riposta nel figlio. Come non vedere qui la storia di Giobbe, di Tobia, di Israele, di ogni credente… nei momenti della delusione cocente, quando la promessa va in frantumi? Come non leggere tra le righe l’esperienza dell’esilio – di ogni esilio e di ogni incomprensibile dolore – con il grido degli uomini disperati, che nella notte si rivolgono a Dio gridando: «Dio, tu ci hai messo alla prova, ci hai passati al crogiuolo, come l’argento» (Sal 66,10)?
Abramo non grida, non piange; va solo dove Dio lo conduce. Lo aveva notato già un grande esegeta, come von Rad: la prima parola del racconto è “Dio”. Colui che chiede di entrare nella notte non è un sovrano crudele e sadico, che si compiace nel tormentare l’uomo, ma colui che – nonostante tutto – mantiene la sua parola. Questa è la fede: dare credito alla promessa, anche quando essa viene smentita dai fatti; dar fiducia a Dio anche quando sembra contraddittorio e inaffidabile. Abramo credette e si addentrò nella notte che gli stava davanti.
Una tradizione riportata dal secondo libro delle Cronache identifica il territorio di Moria con il monte dove Salomone costruì il tempio. Ma non è proprio la fede il vero sacrificio gradito a Dio? Jhwh non vuole il sangue dei primogeniti, ma l’obbedienza della fede. E Abramo credette. Il gioco sul verbo ebraico ra’ah / “vedere” che il testo contiene alla fine del racconto (vedere, provvedere) mostra come, nella fede, l’essere umano è capace di incontrare Dio anche nella notte, perché è Dio stesso che nella notte si lascia vedere.
Il Vangelo: Mc 9,2-10
Il racconto della trasfigurazione di Gesù, proposto nel Vangelo, approfondisce il motivo della notte e della luce della fede nel cammino di Cristo e dei credenti. Il testo va letto non tanto in chiave di “che cosa” è accaduto sul monte, ma piuttosto in chiave di “senso”, perché i generi utilizzati dall’autore hanno la funzione di illuminare la vita e non di soddisfare la curiosità. La trasfigurazione si presenta come un genere letterario misto, dove, accanto a tratti tipici dell’epifania (apparire, vedere…), della teofania (nube, voce, …) e dell’apocalittica (le vesti bianche, la nube, la voce…), Marco ha inserito altri motivi cristologici allo scopo di mostrare, in una sorta di “midrash”, il senso profondo della storia di Gesù e di coloro che si sono messi alla sua sequela.
Nel passo che precede il racconto della trasfigurazione, il lettore aveva imparato che la strada del figlio dell’uomo e dei suoi discepoli è la strada della croce. Gesù aveva detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8,34). Con il racconto della trasfigurazione, la rivelazione sulla strada di Cristo e dei discepoli diventa luminosa, perché viene detto che Dio ha il potere di trasfigurare la croce, trasformandola in resurrezione e vita. La menzione della trasfigurazione come opera di Dio («fu trasfigurato davanti a loro» ha Dio stesso come soggetto) offre al lettore la chiave interpretativa degli eventi che accadono sulla strada di Gerusalemme, sulla strada che porta alla croce. E così viene chiaramente detto che la croce di Gesù, e quella di chi lo segue, non è il segno di un terribile destino, ma la manifestazione di una Sapienza divina, capace di trasformare il non senso della storia umana in cammino di vita.
Vanno lette in questa luce anche le figure di Elia e Mosè, che appaiono accanto al Cristo splendente. La tradizione cristiana li ha compresi per lo più come rappresentanti della legge e dei profeti, ma forse è stato sorvolato il fatto che Mosè ed Elia sono profeti che hanno sofferto e, nella sofferenza, hanno fatto esperienza della salvezza di Dio. Nella tradizione ebraica non solo Elia, ma anche Mosè è visto come il profeta perseguitato. Le due figure testimoniano la presenza del Dio salvatore nel destino di morte inferto dagli uomini ai suoi inviati. E, come Dio è stato presente nella storia di Israele, salvando i suoi profeti, così ora è presente nel destino di sofferenza del suo Figlio e dei suoi discepoli, liberandoli dalla morte.
In questo modo, il Vangelo si aggancia al racconto della notte di Abramo, affermando che il Dio della Bibbia è il Dio della vita. La notte oscura dell’uomo, la notte del dubbio e dell’abbandono, è una notte abitata dalla Presenza. E proprio quando uno immagina di essere ormai solo e abbandonato, proprio allora Dio diventa la sua consolazione e il suo soccorso. La trasfigurazione della notte di Abramo in cammino verso il monte Moria, e della notte di Gesù sulla strada per Gerusalemme, ci dice che la Speranza raggiunge l’essere umano proprio là, dove egli si trova, sulla via che percorre, nella situazione che gli è data in sorte. Un prodigio della fede.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano