Commento alla Parola nella II Domenica di Quaresima /C – 16 marzo 2025

Il tema della Domenica

L’uomo ha ancora bisogno della storia di Abramo, anche se essa emerge da un antico arcano. Soprattutto l’uomo frettoloso di oggi, che a fatica si ferma a guardare le stelle, e a dar credito a una promessa, tanto generica, da sembrare insensata. Eppure quella storia è così genuina e la vicenda di Abramo così paradossale, che anche l’uomo tecnologico è costretto a interrogarsi, perché anch’egli, come Abramo, ha bisogno di sperare e di credere, di contare i giorni e attendere. Una storia trasfigurata appartiene a ogni tempo, purché si sia disposti a tendere l’orecchio per ascoltare, senza la pre-occupazione del cuore e la distrazione della mente.

Prima lettura: Gen 15,5-12.17-18

La storia inizia con una Parola di Dio rivolta a un uomo di nome Abramo. Il rivolgersi di Dio all’uomo era avvertito dagli antichi come qualcosa di sconvolgente e terrificante assieme, ma Abramo non si lascia prendere dalla paura. Il testo dice che «il Signore lo condusse fuori, all’aperto…». Abramo deve dunque uscire dalla sua tenda, come una volta era uscito da Ur dei Caldei. Bisogna venir fuori dalla propria esistenza, avere il coraggio di rompere con le proprie paure e le proprie chiusure, con le proprie sicurezze e con i ghetti che ci tengono prigionieri. Uscire da sé per legarsi a Qualcuno, riempirsi di candore e di stupore, accettando l’imprevedibilità di Dio e della vita.

«Guarda il cielo e conta le stelle, se ci riesci…: così sarà la tua discendenza»: sembra una rassicurazione e, invece, è una sfida, perché la situazione di Abramo è paradossale. Abramo sa – e il lettore con lui – di non avere figli, di vivere come un tronco secco, senza passato (non è più nella sua patria) e senza futuro (Sara è sterile). Può essere credibile una promessa in una situazione che la smentisce irrevocabilmente nel momento stesso in cui essa viene formulata? Può essere affidabile un Dio che prima toglie e poi promette, prima dissecca il grembo e poi s’impegna a renderlo fecondo?

«Abramo credette – continua la storia – e Jhwh glielo accreditò come giustizia». Credere è prendere sul serio Qualcuno, un ancorarsi a lui, assumere un atteggiamento di rispetto che dà credito alla Parola. In fondo, questo è l’unico atteggiamento degno dell’uomo e Abramo lo mette in atto nella sua relazione con Dio. Il testo parla anche di giustizia, ma la giustizia nella Bibbia è un concetto assai complesso che ha il suo punto qualificante nel concetto di relazione. L’essere giusto di Dio significa che egli ha voluto stabilire un rapporto con l’uomo, rivolgendogli la parola, assumendolo come suo partner, dandogli credito. L’uomo vive la giustizia quando prende sul serio un rapporto e si impegna a tenergli fede, rispettandone il senso profondo e le clausole che ne derivano.

La serietà di Abramo spinge Dio a un’ulteriore promessa: quella della terra: «Io sono Jhwh, che ti ho fatto uscire da Ur dei caldei, per darti in possesso questo paese». Alla domanda di spiegazione di Abramo, Dio non risponde più con delle parole, ma con un gesto, ben conosciuto e attestato tra i rituali antichi. Un rito un po’ macabro, ma che simboleggiava efficacemente l’importanza attribuita al patto tra due contraenti. Chi si impegnava in un’alleanza, esprimeva il suo vincolo in una sorta di giuramento, espresso con gesti e parole. Si divideva un animale in due parti e i contraenti passavano in mezzo alle parti squartate, pronunciando una formula di questo genere: «mi accada la stessa cosa se non tengo fede al patto…». Si tratta, dunque, di una dichiarazione che invoca su di sé la maledizione in caso di inadempienza e di tradimento della promessa, in un momento misterioso e in certo senso terrificante, per l’incombente maledizione che da quel momento sovrasta la vita dei contraenti. Il torpore che cade su Abramo, gli avvoltoi che si aggirano sulle bestie squarciate e il terrore della notte che avanza rendono con efficacia lo stato d’animo di Abramo.

Ma ecco la novità: mentre Abramo se ne sta passivo davanti agli animali squartati, solo la fiamma di Dio «passò in mezzo». Paradossalmente, solo Dio s’impegna con Abramo, senza chiedere un uguale obbligo alla sua controparte. Come se YHWH non volesse esporre l’uomo alla sicura dannazione – quale uomo mantiene i patti? – attirando invece su di sé, e solo su di sé, la maledizione in caso di mancato impegno.

È uno dei momenti più alti della rivelazione biblica. Dio si lega alla storia di Abramo e alla storia dell’uomo senza pentimento, per sempre. Dio si vincola con un giuramento solenne, e sarà presente nella storia del suo popolo e dei popoli della terra – che Abramo rappresenta – senza esigere nulla, per pura gratuità, per puro amore. Dio è con l’uomo alla sera e al mattino, quando la notte si avvicina minacciosa e gli uccelli rapaci volteggiano nel cielo, quando il vecchio mondo tormenta i cuori e il nuovo stenta ad affacciarsi. Dio è là. Un Dio “asimmetrico”! Questo significa che la volontà salvifica di Dio non abbandona l’uomo nemmeno là dove egli sceglie di mettersi contro Dio: Dio si è legato a questa storia e a questo uomo, con un patto indelebile. Non ci sarà nessuna ragione al mondo che possa farlo fuggire.

Il Vangelo: Lc 9,28b-36

Il vangelo di Luca offre la prova suprema di quanto abbiamo appena espresso. Il racconto della trasfigurazione è stato letto in diversi modi lungo i venti secoli dell’era cristiana, ma tutti hanno messo in rilievo la particolarità lucana che, a differenza di Marco e Matteo, riferisce l’argomento della conversazione tra Gesù da una parte e Mosè ed Elia dall’altra: essi parlavano «dell’esodo che egli stava per compiere a Gerusalemme» (Lc 9,31). L’esodo fa certamente riferimento alla liberazione dall’Egitto, ma quello che sta per compiersi a Gerusalemme richiama l’uscita di Gesù, la sua morte e risurrezione. Nella trasfigurazione, questo cammino verso Gerusalemme viene compreso da Luca come espressione del compimento supremo del disegno salvifico di Dio: di quella promessa di Presenza, che non conosce pentimento.

I temi della tenda e della nube hanno la funzione di richiamare proprio questo aspetto della storia della salvezza: la presenza misteriosa di Dio, simboleggiata sia dalla tenda del deserto, dove Jhwh aveva stabilito la sua dimora, sia dalla nube che accompagnava Israele nel suo cammino verso la terra promessa. Nel suo «figlio prediletto» Dio assicura ancora una volta – e definitivamente – la sua decisione di essere presente nella storia, senza ripensamenti né pentimenti.

La croce, verso cui cammina Gesù nel suo viaggio a Gerusalemme è il inattaccabile di Dio all’uomo e alla sua vicenda. Per Luca, sulla croce non è più Dio che giudica l’uomo; al contrario, è Dio che si lascia giudicare dall’uomo, rispondendo alla logica violenta della storia umana con un nuovo inizio, segnato dal perdono. In effetti, secondo Lc 23,34 la prima parola di Gesù in croce è una richiesta di perdono per i suoi carnefici, ed è proprio dalla posizione «in mezzo ai malfattori» che scaturisce questa offerta: «Padre perdona loro, perché non sanno ciò che fanno». Qui la logica asimmetrica è più palpabile che negli altri due sinottici: al primo posto non è più l’ordine da ristabilire o il malvagio da reprimere, ma l’uomo da salvare.

La morte di Gesù, dunque, ridefinisce l’immagine di Dio e l’immagine dell’uomo. Non solo perché mette Dio dalla parte delle vittime e non dei carnefici, ma soprattutto perché segna la fine di una certa comprensione di Dio e l’inizio di un’era nuova, in cui l’alleanza indistruttibile del Signore, che passa in mezzo alle bestie squarciate, s’intreccia con il patibolo di un amore crocifisso.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano