Commento alla Parola nella II Domenica dopo Natale /C – 5 gennaio 2025

Il tema della Domenica

Nell’atmosfera del Natale, le letture odierne inducono a fissare ancora lo sguardo sul piccolo uomo immerso nel grande progetto di Dio. I tre passi biblici stimolano a guardare in alto: alla Sapienza che tutto precede, al Progetto che nulla lascia al caso, al Verbo che comunica il mistero di Dio. È uno sguardo positivo sul destino dell’uomo e del creato, una risposta alle domande perenni: da dove veniamo, chi siamo e dove andiamo?

Prima lettura: Sir 24,1-4.12-16

Per capire il grande affresco della sapienza di Dio, dipinto dal libro del Siracide, dobbiamo ricordare quanto si diceva nella festa della santa famiglia di Nazareth. Lo ricordo brevemente: nel vicino oriente antico, la sapienza non era concepita come una teoria scientifica sul mondo e sulle cose, ma come un’arte di vivere, una saggezza necessaria all’uomo nelle sue relazioni e nelle sue imprese. Alla luce di questa prospettiva, il grande elogio della sapienza di Dio, presente nella prima lettura, non va letto primariamente come un abbozzo di natura filosofica, ma come un progetto di vita, una visione da cui il credente è chiamato a trarre linfa vitale per il suo esistere quotidiano.

Due motivi dominano il passo ascoltato. Il primo è quello della Sapienza «uscita dalla bocca dell’Altissimo», che abita le altezze e scruta gli abissi. È una Sapienza che è dal principio, prima che il mondo fosse, e questo non è senza ripercussioni per il piccolo uomo. Il “chi sono?” – con i dubbi e le incertezze che lo abitano e con gli aneliti e i sospiri che ne derivano – ha una risposta: chiunque io sia, Dio mi conosce, perché la sua sapienza mi precede. Le nostre vie sono spesso incomprensibili, ma alla sua sapienza nulla sfugge. Dietro il mistero della nostra vita c’è uno sguardo più profondo che tutto penetra e tutto preserva.

Il secondo motivo è che questa Sapienza, che aveva la sua dimora nelle altezze, «ha messo le sue radici in mezzo a un popolo glorioso». L’Eterno ha scelto di abitare in un fazzoletto di terra: in una città, in un tempio, ma soprattutto in mezzo a un popolo piccolo e insignificante che, grazie alla sua presenza, diventa “glorioso”. Si perpetua la scelta costante di un Dio paradossale, che si compromette, cercando l’uomo nelle sue dimore. La sapienza non abita più nei cieli, ma ci viene incontro sulle strade degli uomini. Il Dio santo è un Dio in-mezzo-a-noi.

Seconda lettura: Ef 1,3-6.15-18

Su queste premesse, la benedizione iniziale, che si trova nella lettera ai cristiani di Efeso, rivela una ricchezza straordinaria. Viene descritta la storia della salvezza, nelle diverse fasi del suo sviluppo: dal suo inizio fino alla sua ultima tappa, che coinvolge la chiesa tutta e le singole comunità, come quella di Efeso. Un processo di ampio respiro, in cui Dio Padre rimane sempre il soggetto della storia: è lui, e solo lui che, in assoluta gratuità, ci ha benedetto scegliendoci per essere santi, predestinandoci ad essere figli, redimendoci per mezzo del Figlio amato e riepilogando in Cristo tutto il creato e tutte le creature. Questa straordinaria visuale ci ricorda la ragione ultima per la quale vale la pena vivere e morire. Nella corsa di ogni giorno, il rischio di perdere di vista la meta è reale.

La prima pagina agli Efesini ricorda ai credenti che sono parte di un progetto di amore gratuito, che niente e nessuno potrà far abortire. La nostra vita può raccogliere consenso e approvazione oppure andarsene via nel nascondimento e nell’umiliazione; può essere sana o malata, onorata o disprezzata, sublime o disperata… È – e sarà comunque – una vita benedetta, perché redenta nel sangue di Cristo, glorificata dalla sua risurrezione, ricapitolata dal suo amore. Si tratta di un mistero, che richiede sapienza. È la sapienza che Paolo augura agli Efesini. Non si tratta della sapienza umana – che è sempre la sapienza del giorno dopo – ma della Sapienza di cui si parlava nella prima lettura: la Sapienza dello Spirito, che non rimane in superficie e non si abbatte davanti a una porta chiusa, ma penetra nel mistero di Dio, osando sperare e attendere… nella consapevolezza che, nel piano divino, tutto ha un senso.

Il Vangelo: Gv 1,1-18

Il prologo del vangelo di Giovanni è un inno a questa Sapienza, identificata con la Parola, la quale, pur avendo, fin dal principio, una sua esistenza e una sua sussistenza presso il Padre, si mette in viaggio per incontrare l’uomo e la sua storia. Il Dio sovrano e trascendente non rimane chiuso in sé ma, mediante la sua Parola, squarcia il mistero, diventando sorgente di vita e di relazione. Sappiamo tutti che, per diventare un «io», l’uomo ha bisogno di un «tu». Secondo il libro della Genesi, Adamo è chiamato a realizzarsi nell’incontro con qualcuno/a che «gli stia dinnanzi» (testo ebraico). Ma Dio? Dio ha voluto anche lui la relazione, l’ha bramata, e per questo ha intrapreso il suo viaggio incontro all’uomo. In linea con la tradizione dell’AT, Giovanni ci dice che Dio è desiderio di comunione e di appartenenza. Nel dia-logo ciascuno sta di fronte al volto dell’altro, mosso non da sete di sopraffazione o di possesso, ma da volontà di accoglienza, perché solo nell’amore il viaggio ha un senso. È solo nell’incontro il segreto della vera gioia.

Nel cuore di questo viaggio, la Parola si fece carne e piantò la sua tenda tra di noi. E così, colui che non abita nei templi costruiti da mani d’uomo e che i cieli non possono contenere, ha voluto prendere dimora nella carne dell’uomo, nella fragilità di un corpo, nell’oscurità di un grembo materno. Un teologo dell’Ortodossia ha scritto che «l’amore comincia dove finiscono le corazze dell’io, quando l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia, effimera o eterna; quando sono pronto ad accettare persino la condanna eterna per amore di quelli che amo» (Yannaras). Nel cammino verso la profondità, il Verbo ha assunto l’uomo così com’è e la carne dell’uomo è divenuta la dimora di Dio. Dio ormai abita nell’«essere carnale» (sarx) e non più in una tenda, in un tempio, in una chiesa.

Nella seconda parte dell’inno, il Verbo riprende il cammino verso l’alto, verso Dio, ma non va da solo. Con lui è l’umanità «carnale», trasformata dall’amore. La meta del viaggio è Dio stesso, il Dio santo, che «nessuno ha mai visto», perché nessuno può vederlo faccia a faccia senza morire (Es 33,20-23). La Parola lo ha rivelato e il Signore ha mostrato all’essere umano il Suo volto. Il viaggio si conclude con un incontro, tanto atteso e sperato, perché, in fondo, si cerca Dio: «Io cerco il tuo volto, Signore, non nascondermi il tuo volto» (Sal 27). È il Volto di Dio la terra promessa a cui l’uomo anela. Un midrash racconta che Mosè morì nel paese di Moab con un bacio di Dio. Voleva entrare nella terra e, per questo motivo aveva ingaggiato una lotta con il Signore che glielo negava. Intercedettero per lui il cielo e la terra, gli angeli e i giusti… ma Dio fu irremovibile. E tuttavia, nel momento supremo – quando venne l’ora della morte – Dio diede un bacio a Mosè e il profeta morì là, nella terra di Moab, «sulla bocca di JHWH». Colui che non aveva potuto vedere Dio faccia a faccia, trova il suo compimento in un bacio di Dio.

Il prologo di Giovanni presenta lo stesso traguardo. Adesso, però, non ci sono più né ostacoli né remore; niente e nessuno potrà separarci da Dio: nel Figlio incarnato Dio ha baciato l’umanità e ha aperto, per tutti, la via della pace. L’essere umano vorrà percorrerla?

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano