Il tema della Domenica
In questa terza domenica del tempo ordinario vengono poste drammaticamente a confronto due storie di vocazione, con due risposte antitetiche. Da una parte Giona il quale, chiamato a un’ardua missione, se ne va «lontano dal Signore»; dall’altra, due coppie di fratelli che, all’invito di Gesù, lasciano le reti e «lo seguono». Storie diverse, perché diverse sono le personalità, le attese, le paure…
Eppure l’accostamento invita il lettore a pensare se non siano, in fondo, storie che viaggiano gomito a gomito e, spesso, s’incrociano, attraversando – l’una e l’altra – la vicenda di ciascuno.
La prima lettura: Gio 3,1-5.10
Il libretto di Giona è uno dei più affascinanti della letteratura biblica, ma non è di facile comprensione, e le varie interpretazioni che sono state date ne sono una chiara testimonianza. Una convinzione, tuttavia, si è fatta strada in questi ultimi decenni: più che da un punto di vista etnico o psicologico, la storia va letta come un racconto teologico che invita i lettori allo stupore davanti a un Dio, che non si lascia imprigionare negli schemi dei “Giona” di ogni tempo.
All’inizio della storia troneggia «la parola del Signore» che s’indirizza al profeta intimandogli: «Alzati, va’ a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me». È questa parola la chiave di volta della storia di Giona, perché è con essa che il profeta, volente o nolente, dovrà misurarsi in tutta la sua vita.
All’inizio di una storia di vocazione – e intendo “inizio” come principio assoluto, da cui tutto ha origine – c’è sempre la Parola di Dio, che chiama e mette in cammino, interpella e provoca. L’uomo trova ingombrante questa Parola, perché esige e turba la quiete, invita e mette in discussione. Così è anche per Giona. La parola gli indica Ninive, l’oriente, e lui – senza una parola! – s’imbarca per Tarsis che si trova a occidente. Giona, in fondo, è un uomo ragionevole: perché andare a Ninive, universalmente nota come città malvagia e irrimediabilmente perduta? Perché ficcarsi in un’avventura dove il risultato non vale il costo? Giona conosce bene le armi della ragionevolezza. È un uomo religioso, corazzato con l’armatura del “do ut des”, l’armatura della legge. È il credente che si compromette quando la garanzia della riuscita è alta e il risultato a portata di mano. In caso contrario, perché rischiare?
Forse c’è anche un altro elemento suggerito dal testo. Tarsis era conosciuta nell’antichità per la sua ricchezza mineraria (cf. Ger 10,9; Ez 27,12) e la fuga a Tarsis, allora, simboleggia anche la fuga verso il benessere e la quiete, «lontano dal Signore», che turba la serenità ed esige responsabilità.
La fuga «lontano dal Signore» comporta però anche una discesa nel degrado e nella solitudine e il racconto mostra con dovizia di particolari che Giona scese a Giaffa e poi sulla nave. «Sceso poi nel luogo più riposto della nave, dormiva profondamente». In seguito il racconto mostrerà ancora la discesa di Giona nel profondo dell’oceano, fino ad approdare nel ventre di un pesce. Ad una fuga «lontano dal Signore» corrisponde una «discesa», un cammino verso l’abisso, là dove l’uomo non incontra Dio, ma neppure se stesso. Il sonno profondo nel quale Giona discende è un simbolo eloquente della discesa nel regno della morte. L’uomo decide di sfuggire alla responsabilità della sua vita e così scivola sempre di più di nascondimento in nascondimento: lontano da tutti, ma anche da sé. Nascondendosi a Dio, si nasconde a sé stesso; fuggendo dalla responsabilità della sua vita si rifugia nel regno della morte, dove non c’è rischio, ma neppure incanto, né vita, né passione, né amore…
Solo alla fine della storia il lettore conoscerà il senso autentico della vicenda di Giona: quando – in silenzio – il profeta che fugge da Dio e da sé dovrà rinunciare alla sua immagine per convertirsi al Dio di grazia e di perdono; quando finalmente capirà che di quell’amore gratuito ha beneficiato lui stesso. La storia di Giona insegna – vale la pena ricordarlo ancora – che «l’amore comincia laddove finiscono le corazze dell’io. Quando l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia, effimera o eterna. Quando sono pronto ad accettare persino la condanna eterna per amore di colui che amo, di quelli che amo…» (Yannaras). Dal Dio della ragionevolezza Giona, e con lui i lettori, sono chiamati a convertirsi al Dio «Altro», al Dio dell’Amore.
Il Vangelo: Mc 1,14-20
Anche il vangelo di Marco insiste sull’“irragionevolezza” della sequela di Gesù da parte di Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni. Gesù inizia a proclamare l’evangelo nel momento stesso in cui Giovanni viene consegnato. I due eventi sono relazionati con una sequenza temporale e al lettore non può sfuggire che la sequela di Gesù sarà una sequela a caro prezzo, perché sarà la sequela di un uomo rigettato, come il Battista. Posto all’inizio del ministero, l’annuncio della cattura di Giovanni suona come un triste presagio, e tuttavia Gesù non desiste dalla sua missione di proclamare la bella notizia di Dio. L’irrompere di Dio nella storia dell’uomo rimane una bella notizia, nonostante lo scandalo e il rifiuto. I primi quattro discepoli, chiamati alla sequela, dovranno fidarsi: l’irruzione del Regno nella loro vita non sarà distruttivo, nonostante i tristi presagi. Dovranno fidarsi di Gesù e della sua parola e il testo lo mette in bella evidenza, insistendo notevolmente sui pronomi personali, che hanno una funzione comunicativa molto intensa.
Espressioni come “venite dietro a me”, “andarono dietro a lui” sottolineano fortemente la vocazione come chiamata a un rapporto personale. Nessun dettagliato programma di vita viene loro offerto, nessun ideale e nessuna opera da realizzare, nessuna sicurezza e nessuna previsione sul futuro… Solo un legame alla persona. Fin dall’inizio appare evidente che l’essere con lui costituirà un cammino di grazia e di rigetto, di consolazione e di turbamento, di vicinanza e di responsabilità.
Per ora, la promessa di renderli “pescatori di uomini” rimane piuttosto vaga, anche perché, sia nell’AT (Ger 16,16) che in Qumran, l’immagine del pescatore veniva associata a situazioni di giudizio. E tuttavia, fin dall’inizio, appare evidente che la chiamata alla sequela comporterà un’assunzione di responsabilità per tutto ciò che concerne la pienezza e la felicità dell’uomo.
Tutto questo ci dice quanto sia distante la coscienza cristiana dalla comprensione che della missione avevano, per esempio, i membri della setta di Qumran. Tra gli esseni, la tensione escatologica causò un ritiro dal mondo, tanto che nella Regola della comunità si dice che si sono «separati di mezzo al soggiorno degli uomini dell’ingiustizia, per andare nel deserto a preparare la via di lui». Il deserto, per Qumran, rappresenta la dissociazione dal consesso degli uomini ingiusti e la via del Signore si prepara lontano da essi. La coscienza cristiana, invece, ha percepito che la strada di Dio viaggia in mezzo agli uomini, di qualsiasi razza e qualsiasi genere: in mezzo ai reietti e agli iniqui, perché nessun uomo è così malvagio da tenere Dio lontano.
Ritorna il problema di Giona: la scelta tra il Dio della ragionevolezza e il Dio dell’amore. Ma non è proprio qui il paradosso del Dio annunciato dalla Bibbia, e cioè che nessun luogo e nessun uomo è impermeabile al suo amore?
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano