Commento alla Parola nella III Domenica del Tempo Ordinario /C – 26 gennaio 2025

Il tema della Domenica

L’evento della sinagoga di Nazareth è incredibilmente appropriato a esprimere il significato della domenica della Parola, perché Luca lo considera come un grande portale che introduce il ministero pubblico di Gesù. Un portale dove sono intagliate, in caratteri monumentali, le chiavi di lettura del vangelo stesso. È interessante notare che, a differenza di Marco, il quale colloca la visita di Gesù a Nazareth in un momento piuttosto inoltrato della missione, Luca la ponga invece come ouverture del ministero pubblico gesuano, ampliando il racconto e conferendogli un rilievo di primo piano. L’evento assume un significato programmatico e “fondante”: non è solo l’archê / “il principio”, ma l’archetipo; non dà solo inizio alla missione, ma ne esprime il senso. La stessa opera della chiesa trova la sua magna charta in questo avvenimento e, nel prosieguo della sua opera, Luca non fa nulla per nasconderlo.

La liturgia divide in due tronconi l’evento, proponendolo in parte oggi e in parte domenica prossima, quasi a suggerire un’assimilazione lenta, come si addice ai grandi eventi della salvezza. Seguiremo passo dopo passo questo racconto che assume – man mano che procede – un andamento drammatico, perché, nato come canto di liberazione, diventerà poi alla fine rifiuto ed espressione della chiusura umana.

Prima lettura: Neh 8,2-10

Nella liturgia odierna, l’episodio di Nazareth è preceduto dai capitoli 8-10 di Nehemia, che appartengono a uno dei momenti più importanti della storia di Israele. Siamo nel post-esilio, nel momento in cui deve essere ricostruita l’identità e la coscienza di un popolo annientato dalla tragedia esilica. La lettura della Torah da parte di Esdra avviene in un contesto penitenziale in cui il popolo fa memoria del Dio liberatore e della propria scelta di tornare in uno stato di schiavitù, a motivo della disobbedienza. Ecco il punto: Dio non ha dato la sua Parola per schiavizzare il popolo. Al contrario: la Parola di Dio è un cammino di libertà. La libertà, nella concezione biblica, è legata alla relazione dialogica con Dio, e dunque alla fedeltà. La Torah, origine e centro della vita d’Israele, è la Parola donata da Dio perché il popolo rimanga libero. L’associazione ḥerût (libertà) ḥarut (legge scolpita sulla pietra) richiama questo inscindibile rapporto: la libertà è un dono di Dio, ma è legata all’obbedienza alla Torah. Attenzione però! L’osservanza della Legge non è un “contraccambio” umano alla liberazione divina: Dio non chiede qualcosa per sé, ma per l’uomo, perché egli rimanga libero. Quella libertà a cui Israele è arrivato non per suo merito, ora è messa nelle sue mani. Proprio grazie alla libertà, il popolo può paradossalmente rifiutare e disprezzare Colui che lo ha liberato. Il peccato diventa il rifiuto del dono di Dio e la causa di sempre nuove schiavitù.

Da questo scaturisce che la libertà in Israele non è un assoluto. Si comprende nel contesto dell’alleanza: la libertà è per il servizio. Una libertà senza orizzonte, … senza una terra promessa, è una libertà dis-orientata… non è altro che una parvenza di libertà. La libertà è data all’uomo perché egli promuova sé stesso e l’altro essere umano, liberandolo dall’indigenza e dalle malformazioni sociali, operando giustizia. In questo modo la libertà diventa un compito per tutti. In fondo è l’amore il principio ispiratore di ogni condotta etica, è l’amore che dà senso alla libertà.

Tutto quanto detto sinora costituisce lo sfondo ermeneutico della lettura che Esdra fa della Torah davanti a tutto il popolo, come ci riferisce la prima lettura odierna. È davanti a questo discorso che identifica Tora-Libertà e Disobbedienza-Schiavitù che Israele è chiamato a scegliere, in un momento particolare della sua storia, per decidere con chi stare e dove stare.

Ma questo discorso è il presupposto necessario per comprendere anche il brano di Luca che viene proposto oggi.

Il Vangelo: Lc 1,1-4; 4,14-21

Il racconto di Luca è contestualizzato nella parte centrale della liturgia sinagogale, così come si svolgeva al tempo di Gesù. Essa era costituita dalle letture bibliche e dall’omelia che poteva essere tenuta da ogni adulto maschio, designato di volta in volta a questo compito dal capo della sinagoga. È proprio a questa parte centrale della liturgia che fa riferimento il racconto di Luca, convogliando l’attenzione sulla citazione di Isaia, posta in bella evidenza mediante una struttura concentrica, quasi perfetta, composta di gesti corrispettivi e antitetici che si susseguono uno dopo l’altro.

Prima della lettura, Gesù “si alzò, ricevette il libro, e lo aprì”, mentre dopo la lettura “chiuse il libro, lo consegnò all’inserviente, e si sedette”. Sembrerebbero osservazioni puntuali, proprie di specialisti, e invece hanno una grande funzione: quella di dare solennità alla Parola letta (quella del profeta Isaia) che si trova al centro di questa struttura e da cui Gesù trae spunto per presentare la sua missione. La citazione è presa sostanzialmente da Isaia, e dunque il riferimento storico è al ritorno dall’esilio, ma il sottofondo teologico è l’annuncio dell’anno giubilare, in cui venivano condonati i debiti di coloro che si erano impoveriti e veniva ripristinata la libertà degli schiavi. Gesù si presenta dunque come il profeta escatologico che inaugura l’anno giubilare, l’evento del tempo finale, la liberazione definitiva.

La sua missione è descritta da quattro infiniti con valore finale, ma tra essi spicca il primo, «evangelizzare i poveri», che riassume tutti gli altri. Questo dice che la salvezza passa per le strade dove nessuno penserebbe di incontrarla, si edifica con le pietre scartate dai costruttori. La menzione di ciechi, zoppi, lebbrosi, sordi, morti… categorie molto concrete, ai margini della società, doveva risuonare provocante, sia per gli ascoltatori di Gesù, sia per la comunità di Luca. Per le attese del tempo, contrassegnate da ipertensione apocalittica del “più forte” e per i lettori benestanti delle città ellenistiche, non era affatto scontato riconoscere nell’atteggiamento scandaloso di Gesù il contrassegno dell’inviato divino. Piuttosto il contrario, se è vero che il dubbio pervase lo stesso Battista costringendo Gesù a dire: «beato colui che non si scandalizza di me».

Allora come oggi doveva provocare un certo scandalo, allora come oggi, “la bella notizia annunciata ai poveri”. Ma quella di Gesù (e di Luca) non era una scelta classista, perché era in linea con la storia della salvezza e con il Dio che sceglie un popolo insignificante invece dei grandi imperi del tempo, sceglie le sterili che non hanno figli invece delle donne feconde, e sceglie il secondogenito Giacobbe invece di Esaù, il primogenito, per mostrare la sua gratuità e la sua totale libertà. Gesù assume sul serio i poveri come suoi interlocutori: non ne fa un ornamento di cui fregiarsi in tempi opportuni; ne fa, invece, i veri portatori della sapienza di Dio. Non siamo chiamati come chiesa di Cristo a vivere questa dimensione salvifica della Parola anche oggi, nell’anno giubilare 2025, perché il nostro annuncio non sia ipocrita? Non è questo il cammino di libertà di cui parla la prima lettura tratta da Nehemia?

«Oggi si è adempiuta questa parola nei vostri orecchi» è la chiusura della sezione di Luca letta in questa domenica. Si tratta di un forte richiamo per gli ascoltatori/lettori. L’uomo – ogni uomo – è posto nell’oggi: nell’oggi della salvezza e della scelta, nella liberazione che Dio opera giorno per giorno; nel cammino di Gesù, ma anche della chiesa. L’oggi è il tempo del compimento: il tempo in cui i cristiani sono chiamati a continuare la proclamazione della parola di liberazione (cf. in Lc 4,18 e in Lc 24,47; At 2,38) fino ai confini della terra. La liberazione, dunque, non si realizza automaticamente. «Nelle vostre orecchie» (4,21) fa appello all’ascolto e alla responsabilità dei lettori. Ciascuno è chiamato a dare la sua risposta.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano