Commento alla Parola nella III Domenica di Pasqua/C – 4 maggio 2025

Il tema della Domenica

Nella terza domenica di Pasqua campeggia l’evento riportato nell’ultimo capitolo del Vangelo di Giovanni: l’incontro del Risorto con Pietro e alcuni altri discepoli. Si tratta di un capitolo che, nella testimonianza manoscritta, è sempre presente, anche se gli studiosi oggi sono pressoché concordi nel ritenere che solo in un momento successivo fu aggiunto al corpo del vangelo. È comunque indubbio che questa appendice contenga temi importanti per la visuale di Cristo e della chiesa. Le parole del Risorto e la forte rilevanza data alla figura di Pietro sottolineano il compito della chiesa in questo mondo, il suo compito nella città degli uomini. È di questo che si tratta.

Il Vangelo: Gv 21,1-19

Gli eventi sono ambientati sul lago di Tiberiade, dove Pietro e alcuni suoi compagni decidono di dedicare la notte alla pesca. Il simbolismo della pesca appartiene a tutti i vangeli e fondamentalmente ha a che fare con la missione dei discepoli. Nei Sinottici «vi farò pescatori di uomini» è la prima parola di Gesù ai chiamati: un’espressione che ha una valenza inaspettata, perché si tratta del servizio al Regno di Dio che significa servizio all’uomo. La chiamata alla sequela implica, dunque, un’assunzione di responsabilità anche per tutto ciò che concerne la pienezza dell’essere umano. Tutto questo ci dice quanto sia dis­tante la coscienza cristiana dalla comprensione del proprio ruolo che possedevano – ad esempio – i membri della setta di Qumran. Qui la tensione escatologica aveva motivato il ritiro dal mondo. Nella Regola della Comunità è scritto che, nel tempo escatologico, i giusti «saranno separati di mezzo al soggiorno degli uomini dell’ingiustizia, per andare nel deserto a prepararvi la via di Lui». Il deserto è per Qumran un luogo di separazione fisi­ca e spirituale dagli uomini ingiusti. La via del Signore si prepara lontano da essi. La chiesa di Cristo si scopre invece come la chiesa degli uomini, per cui il deserto non è che una tappa, perché la missione esige un essere-per-gli-altri là dove questi si trovano. Nella sua missione, la chiesa non fa riferimento a se stessa. L’unica ragion d’essere è il mandato di Cristo, in vista di un servizio al Regno e all’uomo. Porre un accento esasperato su di sé e su alcuni problemi interni all’apparato della struttura ecclesiastica non significa talvolta disconoscere il primato di Dio e del suo Regno? Preoccuparsi troppo di se stessi non è indice di una coscienza che non ha ancora fatto esperienza del Risorto? Quando la paura è vinta, rimane solo l’audacia di andare agli altri, a tutti gli altri, per annunciare il Cristo risorto.

Nel racconto di Giovanni, per due volte si parla di “tirare a terra la rete” e della difficoltà che questo comportava a causa dell’enorme quantità di pesci. Alcuni autori hanno visto nel verbo greco “tirare a terra” una relazione con l’altro verbo utilizzato da Gesù nel descrivere il suo innalzamento sulla croce: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Questo significherebbe che l’innalzamento di Gesù sulla croce ha una stretta relazione con la missione della chiesa che nasce ai piedi della croce. Per l’evangelista Giovanni è così: la missione non nasce là dove si innalzano gli stendardi della forza e della potenza vittoriosa e il successo della missione non si misura dalle folle osannanti e dal dispiegamento dei mezzi. Si vince non quando si ha successo, ma quando si è fedeli, quando alla fine possiamo cantare con gioia l’inno del nostro dovere compiuto.

La chiesa è apostolica se prende sulle proprie spalle la croce dell’uomo e testimonia la gloria del Risorto nella comunione con chi soffre, viene oppresso e vilipeso. In un mondo ingiusto e disumano la chiesa si dimostra veramente apostolica soltanto se è una «chiesa sotto la croce». La successione apostolica è definita dall’essere-per-gli-altri.

In questo senso, va compresa la triplice domanda sull’amore, rivolta da Gesù a Pietro, che si riallaccia chiaramente al peccato del primo tra gli apostoli e richiama il fondamento della missione: la coscienza della chiesa di essere santa e peccatrice e, dunque, bisognosa di conversione. La storia di Pietro si apre e si chiude con il peccato. La coscienza di essere apostoli non può prescindere dalla consapevolezza della propria fragilità strutturale. La chiesa è santa là dove si riconosce bisognosa di perdono, là dove esperimenta il suo peccato e il peccato di ogni uomo, affidandosi alla misericordia che giustifica il peccatore. Solo questa coscienza permette di avvicinarsi all’uomo come fratello, sapendo di condividere con lui peccato e perdono, miseria e grazia.

A Pietro che riconosce il suo peccato, all’uomo segnato dalla colpa, proprio a lui viene affidato il ministero del pastore. «Pasci le mie pecore» è il comando del Risorto: non si tratta di una parola di dominio, ma di responsabilità!  In questo mandato si devono leggere certamente due aspetti, connessi l’uno all’altro: l’evangelizzazione e la responsabilità. Nella mentalità antica, l’immagine del pastore era legata all’autorità e alla responsabilità. I re erano chiamati ad essere pastori del popolo, ma si è autenticamente pastori solo quando si è responsabili. Ingenuamente forse pensiamo che questo discorso sia solo per chi ha effettivamente un posto di comando nel vivere civile e religioso. In verità, nella sua dimensione più sublime, la responsabilità si esercita in ogni tipo di relazione.

Nella deriva narcisistica in cui viviamo il rischio del verbo è di non farsi carne, ma di esaurirsi nella contemplazione di sé. Nella letteratura e nella spiritualità, come nella vita, la preoccupazione dell’“io” predomina spesso sulla sollecitudine per il “tu”, il discorso che s’impone soppianta la passione della reciprocità, l’immagine e la bella apparenza assorbono il dinamismo della verità profonda. Nella concezione biblica della Parola, invece, non esiste verità senza assunzione di responsabilità: è sempre l’azione che rende autentica la parola. Si è pastori quando l’altro/a ci interessa più della nostra vita e della nostra morte.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano