Il tema della Domenica
Il legame tra le tavole della Legge (prima lettura) e l’azione di Gesù nel tempio (Vangelo di Giovanni) è più stretto di quanto si possa immaginare, perché interpella direttamente i credenti sulla percezione di Dio. I comandamenti e il tempio, infatti, sono due pilastri dell’edificio religioso e così sono stati intesi da tutta la tradizione ebraico-cristiana. E tuttavia, come ogni cosa sacra, anch’essi possono divenire veri e propri ostacoli all’incontro con Dio. Non per un difetto congenito, ma a motivo del cuore dell’uomo. È necessario allora richiamarne il senso autentico e la vera funzione, per non sprofondare nel formalismo vuoto che può annidarsi nel cuore di ogni sistema religioso, compreso il cristianesimo.
La prima lettura: Es 20,1-17
Le dieci parole (così vengono definiti gli imperativi che la tradizione cristiana conosce come “i dieci comandamenti”) hanno già all’inizio, nel primo versetto, la loro chiave di interpretazione. Vi si legge, infatti: «Io sono YHWH, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,1). Dio si presenta come colui che sta all’origine, nel momento stesso in cui Israele nasce come popolo libero, riscattato da Dio che lo fa uscire dall’Egitto e stringe con lui un’alleanza perenne. Questo evento di liberazione iniziale ha anche un altro significato: il legislatore, colui che dà ora i suoi comandamenti, non è un Dio che, con la sua Legge, vuole opprimere Israele. Al contrario: i comandamenti sono dati perché il popolo rimanga libero e non diventi più schiavo degli idoli. La Legge data al Sinai non è un atto di asservimento, ma di libertà. È per questo che i primi cinque libri della Bibbia che la traduzione greca della Settanta rende con «Nomos / Legge» in ebraico portano il nome di Torah, che significa «Insegnamento». Non sono norme di un despota oppressivo, geloso del suo potere, ma insegnamenti di un Padre che ama ed educa i suoi figli a camminare sulla strada che conduce alla Vita. È un deplorevole paradosso che, nella tradizione cristiana, si sia insinuata la tendenza a comprendere «le dieci parole» come una legge che mortifica la libertà umana.
Le dieci parole sono la strada della libertà, perché hanno come fondamento un amore gratuito: un Amore che ha deciso di parlare agli uomini e alle donne di ogni tempo, come uno sposo parla alla sua sposa, come un padre e una madre parlano ai loro figli. E infatti, il prosieguo della frase suona: «Io sono JHWH tuo Dio». Così si viene a dire che la Parola è costitutiva dell’alleanza ed è consegnata a un essere umano liberato e, dunque, libero di accettarla o rifiutarla. Colui che ha liberato Israele ha dato, insieme alla libertà, anche la possibilità del rifiuto, perché il Dio della Bibbia non è assimilabile al faraone e ai sovrani stranieri che dominano schiavizzando i sudditi. Al contrario, è un Dio che fa uscire da una situazione di schiavitù e stabilisce un rapporto solo in termini di relazione libera e liberante. Il decalogo è la magna charta della libertà, a tal punto che in ebraico il rapporto tra la Legge di Dio scolpita sulla pietra e la libertà è espresso dall’assonanza tra il vocabolo harût che significa scolpita (sulla pietra) e herût che significa libertà. È questo il senso del midrash, che mette sulla bocca di Dio una bellissima espressione: «non vi ho dato la Torah perché sia per voi un peso e perché la portiate, ma perché la Torah porti voi!». Ritornano alla mente le parole di un poeta francese, che in una poesia cantava: «Voi mi chiamate la legge, io sono la libertà».
In questo modo, tuttavia, il dono della Legge – come il dono della libertà – diventa anche un compito (duplicità espressa egregiamente in tedesco con Gabe / Dono e Aufgabe / Compito). La Legge è data all’uomo perché, osservandola, rimanga libero e non diventi di nuovo schiavo degli idoli. In questo modo la Legge-Libertà diventa regola del rapporto con Dio e con gli altri.
Il Vangelo: Gv 2,13-25
Accanto alla Legge, la liturgia di questa terza domenica di quaresima pone un altro dei pilastri della fede di Israele e dei credenti in Cristo: il tempio. Analogamente alla Legge, il santuario rimanda alla relazione con Dio, perché il vero problema che sta dietro al tempio è proprio questo: dove abita Dio e dove è possibile incontrarlo? Questa domanda lacerò Israele fin dalla costruzione del primo tempio e continuò a tormentare le coscienze dei credenti lungo i secoli, se è vero che la Samaritana si rivolse a Gesù ponendo lo stesso quesito. Può Dio abitare veramente in un santuario? O, in altri termini: il tempio testimonia veramente la presenza di Dio? Domanda impegnativa, come è impegnativa la risposta, che Giovanni rende chiara grazie soprattutto a due peculiarità che contraddistinguono il suo racconto da quello dei Sinottici.
La prima è rintracciabile nel significato dato all’episodio dalla citazione del Sal 69, che soltanto il Vangelo di Giovanni riporta: «Lo zelo per la tua casa mi consumerà» (al futuro!). Il Salmo recita: «Sono un estraneo per i miei fratelli, un forestiero per i figli di mia madre. Poiché lo zelo per la tua casa mi consumerà, ricadono su di me gli oltraggi di chi ti insulta» (Sal 69,8-9). Al pari del salmista, e al pari dei profeti, Gesù si sente uno straniero in casa propria, perché – a differenza dei suoi contemporanei – non vede nel tempio un sistema costituito di garanzie religiose, economiche e sociali, ma «la casa del Padre». Ecco la prima verità sul tempio: esso è il luogo dell’incontro con Dio, e non deve diventare il grande alibi per la propria sicurezza e il proprio tornaconto. Lo dimostra il gesto di Gesù che caccia con una sferza i venditori, ma anche la storia del profeta Geremia, che sulla scalinata del tempio gridava: «Non confidate nelle parole menzognere di quelli che dicono “tempio del Signore, tempio del Signore…”. Se emenderete la vostra condotta e le vostre azioni, se realmente pronunzierete giuste sentenze… se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova… Io vi farò abitare in questo luogo» (Ger. 7,4-7). Come Geremia, Gesù è il profeta diverso di un Dio diverso, un estraneo in mezzo ai fratelli, e questo suo zelo per il vero Dio lo consumerà, perché proprio i custodi del tempio lo metteranno a morte.
Ma c’è anche un secondo motivo che, rispetto ai Sinottici, Giovanni esplicita in tutta chiarezza, spiegando in una nota che Gesù – evocando la distruzione e la ricostruzione del santuario – parlava «del tempio del suo corpo». La novità cristiana sul tempio è proprio qui: il corpo glorioso del crocifisso diventa il luogo dell’appuntamento universale tra Dio e gli uomini. La funzione che non era adempiuta dal santuario costruito di pietre, ora si compie nel corpo di Gesù crocifisso. Questo significa che i veri adoratori di Dio non sono i guardiani del tempio materiale, i sommi sacerdoti garanti del sistema o gli scribi detentori del sapere, ma tutti coloro che adorano Dio «in spirito e verità» (Gv 4), coloro che entrano nella morte con la forza dell’amore (Gv 13) o coloro che, pur essendo ciechi fin dalla nascita, insegnano ai titolari del sapere che esiste un’altra Verità, un’altra Sapienza, oltre a quella del mondo (Gv 9).
La nota conclusiva – Gesù «non si fidava di loro… perché sapeva quello che c’è nel cuore dell’uomo» – sposta il centro del vero incontro con Dio dal cortile sacro all’intimo della persona umana, lì dove l’uomo non esibisce qualcosa, ma si decide per Qualcuno.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano