Commento alla Parola nella III Domenica di Quaresima /C – 23 marzo 2025

Il tema della Domenica

Il Nome di Dio è il caso serio di ogni credente. Conoscere il Nome, cercare il Volto… costituiscono l’itinerario di fede per antonomasia, perché esprimono il mistero e il senso, l’anelito e il tormento… Una relazione si stabilisce grazie alla conoscenza del nome. Quella con Dio non fa eccezione. Chi non ha chiesto, un giorno, soprattutto nei momenti tenebrosi della vita: «mostrami il tuo Volto!», «dimmi il tuo Nome!».

La storia di Mosè (prima lettura) è la storia di ogni credente, che cerca Dio e s’imbatte in una montagna, un roveto, un albero, il fuoco… Oppure, per esprimere la stessa verità con le immagini del passo evangelico, si cerca Dio e ci si imbatte in un massacro sanguinoso, in una torre che cade… ossia, nel microcosmo ordinario che tesse la nostra vita quotidiana. Con questo, però, non si vuole assolutamente dire che il Dio biblico è una proiezione dei fenomeni e delle potenze naturali, né il fustigatore che impone la sua verità dando scacco all’uomo e alla storia umana. Affatto! Dio è una persona: ha un nome, una voce, cerca l’essere umano e lo interpella. Le letture odierne ci introducono in questo universo sublime dell’identità di Dio e del suo ineffabile mistero.

Prima lettura: Es 3,1-8a.13-15

L’Esodo racconta che, dopo l’avventurosa permanenza in Egitto, Mosè si era rifugiato nel deserto, tra i madianiti nomadi che, con i loro cammelli, viaggiavano nella penisola del Sinai. Lì si era sposato e conduceva una normale vita familiare quando, pascolando il piccolo bestiame di Jetro, suo suocero, improvvisamente si trova davanti a Dio che si rende presente in una fiamma di fuoco. Sul piano puramente esteriore non è difficile immaginare un temporale, con fulmini e tuoni. Ma gli eventi ordinari diventano storia, quando sono carichi di senso, e Mosè fa esperienza non di un semplice evento naturale, ma di quel fuoco divorante (Dt 4,24) che è Dio stesso. Da quel momento la sua vita cambia e cambia la vita del popolo a cui è inviato.

Dio si presenta come il Dio dei padri, perché la storia è sempre legata al passato, ma si presenta soprattutto come un Dio che vede, ascolta e conosce i tormenti di un popolo umiliato dalla schiavitù, e ora scende per liberarlo. Un Dio qualunque non parla così: non esce dall’indeterminatezza, non si rivolge all’uomo, non impegna il suo onore, ma il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non è un Dio qualunque! Come diceva Origene: «soffre di una passione d’amore». Se il Dio biblico fosse semplicemente il Dio dei filosofi, non varrebbe la pena giocarsi la vita per lui. L’ideale della vita di fede non è l’apatheia stoica, l’impassibilità neutra, che non si coinvolge e non si mette in discussione.

Gli dèi di Canaan erano la personificazione di un ciclo naturale: impastati nei ritmi della natura. Il Dio d’Israele invece è personale: interviene, rimprovera, ammonisce, consola…: raggiunge gli uomini con la parola, è incarnato nella storia: a lui importa dell’uomo! Non è un Dio che si può raggiungere semplicemente con la conoscenza o con i riti, perché non aliena l’uomo dalle sue responsabilità. Non è un Dio qualsiasi, una potenza naturale o metafisica, una potenza che soggioga. È un Dio a cui si può stare davanti, con cui si può entrare in profonda intimità.

Ecco il senso profondo del nome che Dio rivela a Mosè. Il nome definisce l’essere e l’agire di chi lo porta e il nome di Dio è: «‘ehyeh ‘ašer ‘ehyeh», che potremmo tradurre: “Io sono l’esserci!”, come dichiara solennemente a Mosè Dio stesso. Il tetragramma Jhwh è da collegarsi, dunque, con la radice hayah, un termine correlato probabilmente al respiro, alla vita, all’essere, all’esistere, o meglio: all’esserci! Il verbo, senza ulteriori specificazioni, fa sì che Dio non venga caratterizzato da un attributo, ma dall’agire, e precisamente dal suo agire liberante: «Voglio scendere a liberarlo dalla mano dell’Egitto…». Dio è per sua natura un Dio che libera, un Dio che fa uscire. Ancora oggi, nel Seder pasquale, si canta: «…è nostro dovere e nostra gioia ringraziare, lodare, magnificare, esaltare colui che ha compiuto in noi e nei nostri padri meraviglie e prodigi: Egli ci conduce dalla schiavitù alla libertà, dall’amarezza alla gioia, dal lutto alla festa, dalle tenebre alla luce…».

Il Vangelo: Lc 13,1-9

Dio rimane un Dio che libera, anche quando il contesto storico sembra contraddire questa verità. Il Vangelo odierno legge l’aspetto della liberazione e, dunque, dell’identità di Dio, sotto una luce particolarmente stimolante. All’inizio vengono ricordati due eventi di cronaca, che ci sfuggono nei particolari: Pilato aveva fatto massacrare un gruppo di galilei e una torre era crollata uccidendo diciotto persone. Due fatti di cronaca nera, dunque. Gesù ne prende spunto per un insegnamento su Dio e sull’uomo.

Anzitutto afferma che quelle morti non sono state volute da Dio. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, esse non sono conseguenza di una punizione a motivo del peccato, per il semplice fatto che quei galilei e gli altri diciotto morti non erano più peccatori degli altri. E tuttavia – ed è l’insegnamento centrale – tutto quello che a motivo della crudeltà o dell’incuranza umana accade è anche Parola, perché richiama interpella l’essere umano, richiamandolo alla verità di sé: «se non vi convertite, perirete tutti in maniera simile». Ovviamente, non si tratta qui di una predizione, ma di un monito: con la sua malvagità, l’essere umano si trova su un crinale e, senza un cambiamento radicale che viene dal profondo, rischia di sprofondare definitivamente, senza appello.

Filone di Alessandria, un filosofo ebreo di lingua greca, contemporaneo a Gesù, esprimeva la condizione umana, affermando che l’uomo è methorios: termine difficilmente traducibile, ma molto espressivo, perché ha a che fare in qualche modo con lo spartiacque: quella linea di intersezione delle superfici che separa due versanti opposti. L’uomo si trova sul crinale di un monte, avvolto per metà da tenebre e per metà da luce, sempre in bilico tra salvezza e dannazione. Se questa è la condizione umana – difficilmente contestabile anche nella situazione attuale del mondo – allora il richiamo di Gesù non è tanto una minaccia, ma un pungolo, che sprona a una presa di coscienza: senza un vero cambiamento, l’uomo rischia di ritrovarsi nel baratro.

La parabola sul fico, che segue i due ammonimenti, non fa altro che ribadire, con un’immagine efficace, il messaggio centrale del passo: l’uomo deve sfruttare il tempo che rimane per convertirsi e portare frutto. La pazienza di Dio è la possibilità offerta all’uomo perché ritrovi il senso della vita. Alcuni studiosi vedono in questo passo un giudizio su Israele, dimenticando che Luca non perde mai di vista la responsabilità dei credenti in Cristo. In realtà, lo sguardo di Luca spazia nel tempo della Chiesa: a tutti è concessa l’assunzione di responsabilità, sia come riconoscimento della propria fallibilità, sia come impegno di conversione. A tutti è concesso l’anno di grazia, come viene annunciato nel primo intervento di Gesù nella sinagoga di Nazareth, il grande portale dell’opera lucana. Ed è proprio qui che la verità dell’Io sono s’intreccia con la verità dell’essere umano. A ogni uomo e a ogni donna è dato di incontrare l’agire liberante di Dio all’interno del proprio spazio e del proprio limite. A ciascuno è dato di conoscere il Nome e il Volto, nella consapevolezza che l’incontro con Dio porterà l’uomo alla verità e all’assunzione di responsabilità.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano