Il tema della Domenica
L’accostamento tra il testo del Deuteronomio sul profetismo e quello di Marco, che presenta l’opera di Gesù a Cafarnao, non è tra i più semplici da definire, eppure la relazione tra i due passi è ricca di tocchi suggestivi e provocanti, perché nel profeta che Mosè annuncia in Deuteronomio il cristianesimo delle origini ha riconosciuto Gesù di Nazareth. Dt 18 è divenuto, così, un testo basilare per definire e riconoscere in Gesù il vero profeta di Dio.
La prima lettura: Dt 18,15-20
Dopo aver passato in rassegna l’istituzione regale e sacerdotale, l’autore del Deuteronomio si sofferma sul profetismo, ricordandone anzitutto l’origine, nel momento stesso della stipulazione dell’alleanza. Di quell’esperienza l’autore ricorda il momento della separazione tra Dio e l’uomo, in cui l’uomo fragile avverte di non poter stare alla presenza di YHWH, fuoco divorante, perché l’uomo non è Dio e l’accettazione della distanza è alla base della sussistenza. Al momento della nascita, per poter vivere, l’essere umano deve essere separato dal ventre materno, così anche nell’esperienza religiosa, l’uomo deve accettare la separazione da Dio, perché un vincolo immediato, che non riconosce la distanza, non è comunione, ma possesso. La comunione richiede una separazione.
E tuttavia questo aspetto della separazione sarebbe devastante se non ci fosse insieme quello della comunione. L’uomo non può vivere nell’assenza, ha bisogno di un legame, ha bisogno di un’alleanza. È proprio per colmare la distanza che Dio sceglie un profeta mediatore che parli al popolo in Suo nome, mostrando la via da seguire. Il mediatore porta sulle sue spalle dignità e responsabilità: la dignità di essere la voce di Dio e la responsabilità di esserne un testimone verace: «egli dirà loro quanto io gli comanderò… ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire». Come il Dio di Israele, il profeta interviene, rimprovera, ammonisce, consola… si appassiona, lotta, s’indigna per l’ingiustizia perpetrata a danno dei più deboli, incoraggia a una fedeltà che non sia solo cultuale e formale. Uomo della parola, il profeta vive una duplice fedeltà: a Colui che lo ha inviato e al suo popolo.
Questo suo essere-in-relazione diventa la sua vocazione e il suo tormento. Fedele al mandante, solidale con il destinatario, il profeta vive la dialettica che spesso s’innesca tra questi due poli: senza annullare né la fedeltà a Dio né la partecipazione al destino degli uomini. Per essere meno vulnerabile, bisognerebbe sbarazzarsi di uno dei due legami o ignorarlo. Geremia ne fu tentato, quando un giorno disse tra sé e sé: «Non penserò più a lui, non parlerò più a suo nome» (20,9a). Ma non poté. Il profeta autentico rimane legato alla Parola che lo costituisce, senza riduzioni né finzioni.
Il dovere di trasmettere la parola di Dio fa del profeta un uomo esposto e disarmato. Senz’altro a motivo del suo essere pubblico, perché il suo luogo è la strada, la pubblica piazza, là dove il messaggio è più necessario e il fuoco rovente. Ma soprattutto a causa della sua fedeltà: non può ammorbidire la Parola che gli viene consegnata per pura convenienza, in ossequio ai potenti, o per viltà rifugiandosi nell’anonimato. Costi quel che costi, il profeta dovrà denunciare le macchinazioni dei potenti, la menzogna dei sistemi, l’ingordigia dei profittatori… Non potrà ritirarsi in un luogo tranquillo, nel silenzio convenevole di chi non osa rischiare. Da questa serietà di esigenze nasce la verità del profeta, il suo pathos e la chiamata al martirio quotidiano. Senza ripiegamento su sé stesso, senza estetismo sterile o esotismo fuorviante, il profeta proclama ciò che vive prima nella sua carne: la serietà di Dio e dei suoi comandamenti.
Il Vangelo: Mc 1,21-28
Il testo odierno di Marco ci presenta la profezia di Gesù: un inviato autentico che annuncia la verità di Dio e il suo Vangelo, senza menzogne e senza infingimenti. L’inizio dell’unità letteraria (che proseguirà anche nella prossima domenica) va sotto il nome di “giornata di Cafarnao” perché presenta una giornata-modello di Gesù, una sorta di paradigma dell’attività profetica del messia in mezzo al suo popolo. La cornice geografica data da Marco a questa giornata è la città di Cafarnao.
Gli spostamenti di Gesù e le indicazioni temporali – con l’entrata in città e nella sinagoga (v. 21), l’uscita dalla sinagoga e il successivo ingresso in una casa privata (v. 29), l’arrivo della sera (v. 29) e della notte (v. 35) – mettono in risalto il cammino del profeta in mezzo al suo popolo, un percorso sulle strade degli uomini, senza pregiudizi per luoghi o persone: da un posto di lavoro a uno di culto, da una casa privata a uno spazio pubblico (la porta della città), fino alla solitudine del “luogo deserto”, a notte fonda. Questo cammino di Gesù è distante sia dal viavai frenetico e senza mèta di tanti nostri itinerari quotidiani, sia dall’immobilismo saccente di chi si ritiene migliore degli uomini che incontra.
L’andare di Gesù obbedisce a un Progetto di salvezza. La sua prima azione consiste nella liberazione di un uomo posseduto da uno “spirito impuro”. La credenza in un mondo intermedio abitato da angeli e demoni era comune alla cultura antica, che estendeva il regno di Satana ovunque l’uomo mostrasse segni di schiavitù e di limite. Ogni cultura, del resto, si è sempre interrogata sull’origine di certe forme parossistiche del male, difficilmente attribuibili alle pure forze della natura umana. In ogni caso, è indicativo che la prima lotta di Gesù, nel vangelo di Marco, non sia contro i suoi abituali avversari (scribi, farisei, sacerdoti…), ma contro lo spirito che aliena gli esseri umani. Raccontando le tentazioni nel deserto (1,12-13), Marco non aveva fatto menzione del genere di prova a cui Gesù era stato sottoposto, ma aveva messo in risalto la durata della tentazione, quasi a dire che la lotta contro Satana avrebbe occupato la sua intera esistenza. La liberazione dell’uomo posseduto nella sinagoga di Cafarnao inaugura il tempo della lotta con la malvagità che schiavizza l’essere umano.
Il termine exousia – che in greco significa “potestà”, “autorità” – forma una sorta di inclusione del brano, perché ricorre all’inizio (v. 22) e alla fine (v. 27). Marco adopera questo termine soprattutto nella prima parte del suo vangelo (1,1-8,27) come una qualità che connota l’operare di Gesù nel suo insegnamento, nei suoi prodigi, nel perdono di Dio concesso ai peccatori. La missione del profeta viene così presentata come l’epifania della potenza di Dio: una potenza, però, che non schiaccia l’uomo né si traduce in un sistema di narcisismo sterile o in una gelosa custodia dei propri privilegi, ma si realizza invece nel servizio che libera dalle alienazioni del corpo e dello spirito.
Al centro dell’episodio troneggia l’unica parola di Gesù in tutto il racconto rivolta allo spirito malvagio: «Taci ed esci da lui». Si tratta di un’intimazione perentoria, espressa da due imperativi. È interessante notare che il verbo phimoô, tradotto abitualmente con “tacere”, di per sé significa “mettere la museruola”, “imbavagliare”. Vista così, l’opera profetica di Gesù appare ancora più efficace. Il profeta, spesso osteggiato dal potere e dagli uomini che lo detengono, con la sua sola parola è in grado di imbavagliare le potenze di questo mondo e il potere di forze che sovrastano e soggiogano l’uomo. Con la sua sola parola, il profeta restituisce l’essere umano alla sua verità e alla sua dignità. Questa è l’opera dei messaggeri di Dio.
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano