Commento alla Parola nella IV Domenica di Avvento /C – 22 dicembre 2024

Il tema della Domenica

Il tema della «visita» ricorre sovente nel linguaggio quotidiano e letterario, filosofico e religioso. Si fa visita a un parente e a un amico, a un ammalato e a un santuario. Nel vangelo di Luca – soprattutto nei primi due capitoli – con espressioni multiformi si presenta la visita di Dio in un momento cruciale della storia, perché Dio viene a riscattare il suo popolo. Lo stesso cantico di Zaccaria riassume l’evento Gesù nel tempo del compimento con le parole: «Benedetto il Signore, Dio di Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo». È su questo tema suggestivo e sulle sue diverse implicazioni che le letture di quest’ultima Domenica d’Avvento invitano a riflettere.

Prima lettura: Mi 5,1-4a

Michea è contemporaneo di Isaia e nel suo messaggio riecheggiano alcuni tratti del grande profeta di Giuda. Le sue immagini, però, sono più robuste e severe e la sua attenzione si concentra maggiormente sui grandi problemi sociali del Regno dove svolge il suo ministero. Soprusi e violenze sulle classi più deboli vengono stigmatizzati da Michea con parole veementi. Nel suo messaggio si avverte talvolta il timbro di Amos, il suo «no» deciso e la sua denuncia radicale contro gli sfruttatori e i perversi. Il passo che precede immediatamente il brano proclamato oggi nella liturgia suona chiaro e pungente: «udite questo voi capi… che aborrite la giustizia e storcete quanto è retto…; i capi giudicano in vista dei regali, i sacerdoti insegnano per lucro, i profeti danno oracoli per denaro. Osano appoggiarsi al Signore dicendo: “Non è forse il Signore in mezzo a noi? Non ci coglierà alcun male”. Perciò, per causa vostra, Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diverrà un mucchio di rovine…» (Mi 3,9-12).

In contrasto con queste parole drastiche rivolte ai capi, l’oracolo sull’avvento del re messianico contenuto nella lettura di oggi, ha come orizzonte la restaurazione proprio di quel popolo oppresso e umiliato dai potenti. L’orizzonte è totalmente diverso, perché contrassegnato dalla gioia e da un’atmosfera idilliaca. Si annuncia l’avvento di un personaggio misterioso, che governerà nella pace e nella sicurezza. La sua origine non sarà legata alle importanti località della Giudea, ma a Betlemme, un piccolo e insignificante centro, non lontano dalla città del gran Re. La sua origine davidica lo rivelerà come inviato di Dio e pastore, perché «pascerà con la forza del Signore e con la maestà del nome del Signore suo Dio».

Come la voce del profeta Sofonia, che marcava il messaggio della scorsa domenica, anche quella di Michea sottolinea che la visita di Dio percorre i sentieri dell’insignificanza umana resa feconda dalla potenza di Dio. La povertà, infatti, è la verità che più ci definisce e non solo perché portiamo il limite nella fragilità della nostra carne e nell’inadeguatezza dei nostri progetti, ma soprattutto perché la povertà ci offre la consapevolezza che quanto abbiamo ci è stato dato in dono e che tutto ciò che appartiene alla nostra esistenza è grazia. Si è poveri perché si è ciò che si è grazie a un atto di amore, che nessuno ha meritato. Solo la povertà mette l’uomo in condizione di dire: «Non ho né oro né argento…; posso solo dire: ecco io vengo…». È il grande messaggio che risuona oggi nella lettera agli Ebrei. Solo i poveri sanno che la sola offerta gradita a Dio è l’esistenza stessa: con le sue vette e i suoi abissi, le sue infedeltà e le sue crisi… Il profeta Sofonia ci ricorda un dato assolutamente importante della rivelazione biblica: la visita di Dio non obbedisce ai canoni della prestazione e della competizione, ma a quella relazione fondamentale che Dio e l’uomo possono stabilire sulla base del loro essere. Lo insegna Gesù stesso, quando presenta sé stesso al Padre dicendo: «non hai voluto sacrificio, né oblazione… Non hai gradito olocausti, né sacrifici per i peccati. Allora io dissi: ecco vengo… per fare o Dio, la tua volontà». Amare qualcuno significa e comporta «l’esserci», come del resto ribadisce il brano del Vangelo che segue, con Maria che visita Elisabetta.

Il Vangelo: Lc 1,39-45

Il racconto della visitazione di Maria a Elisabetta è incastrato da Luca tra le due annunciazioni (a Zaccaria e a Maria) e le due nascite (di Giovanni e di Gesù). È evidente che l’intenzione dell’evangelista è quella di disegnare una storia della salvezza dove le strade del precursore e del Messia s’incontrano nell’incontro delle madri.

Il racconto non soddisfa le nostre curiosità: non dice quale motivo spinga Maria a mettersi in viaggio, né parla della durata o delle difficoltà del cammino. Non si menziona tra i motivi della partenza la volontà di aiutare una parente vecchia e incinta, come spesso si sente dire. A Luca sembra interessare solo una cosa: Elisabetta e Maria sono accomunate da uno stesso disegno divino; l’angelo che annuncia a Maria la nascita straordinaria del suo figlio Gesù, le annuncia anche la nascita di un altro figlio, donato a Elisabetta, nella sua vecchiaia. È la fede in questa Parola che fa alzare in fretta Maria. E, infatti, il saluto di Elisabetta richiama la fede di Maria e la sua obbedienza alla Parola: «Beata colei che ha creduto all’adempimento di ciò che le è stato detto dal Signore!». Il participio aoristo greco (hē pisteousousa) definisce Maria come “la credente”, colei che ha fatto dell’adesione a Dio e al suo disegno la condizione stessa della sua esistenza. È questo il primo meraviglioso frutto della visita di Dio.

Ma c’è un secondo aspetto che concerne il racconto della visitazione e che impregna l’evento di una luce particolare. Se prendiamo come quadro di riferimento il trasporto dell’arca a Gerusalemme, raccontato in 2Sam 6, ci rendiamo subito conto che la visita di Maria ad Elisabetta ripercorre in filigrana proprio quell’evento. L’arca era il segno supremo della presenza del Signore in mezzo al suo popolo e il solenne trasferimento a Gerusalemme fu subito avvertito dal re Davide come un compito primario. Ma, davanti alla morte di Uzza che aveva osato toccare l’arca, Davide fu preso da spavento ed esclamò: «A che debbo che l’arca del Signore venga da me?». Così decise di porla per tre mesi in casa di un certo Obed-Edom. Quando poi finalmente l’arca fu trasportata a Gerusalemme, il narratore racconta che Davide incominciò a «danzare e a saltare» di gioia dinnanzi al Signore. Sono notevoli i punti di contatto tra l’ingresso dell’arca a Gerusalemme e la visita di Maria a Elisabetta, ma qui vorrei solo sottolineare che si usa lo stesso verbo greco per indicare la danza di Davide davanti alla presenza del suo Dio e il movimento del bambino nel seno di Elisabetta, davanti all’ingresso in casa del Messia, che Maria portava in grembo.

La danza è il canto del corpo, l’incarnazione della gioia davanti alla visita di Dio: il re Davide ed Elisabetta lo testimoniano a loro modo. La danza è il canto dei poveri, l’espressione felice del corpo, ricolmo della pienezza di Dio. Il Magnificat continua questa danza, proclamando le meraviglie operate grazie alla visita di Dio e al suo amore per gli indigenti e i perdenti. Maria – come Davide – trasporta la presenza di Dio nel seno del suo popolo e ne canta l’accoglienza da parte dei diseredati e dei derelitti. Il canto trapassa il reale, la corteccia della storia e la forza oscura che la pervade. Nel campo dell’istinto violento, che penetra uomini e cose, Maria guarda il germoglio che sboccia, grazie alla visita di Dio che, nel Figlio, offre ancora una volta all’essere umano la possibilità di danzare.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano