Commento alla Parola nella IV Domenica di Pasqua /B

Il tema della Domenica

Parlando del Volto come espressione dell’altro, Emmanuel Lévinas osserva con acume che esso è una sfida al desiderio di possesso e di onnipotenza: «A un soggetto rivolto verso se stesso… a un soggetto che si definisce per la cura di sé e che, nella felicità, attua il suo per sé, noi opponiamo il desiderio dell’Altro… di un Altro che sono gli altri, che non sono né il mio nemico… né il mio complemento…». Ecco descritto, in termini di antropologia filosofica, ciò che la prima lettera di Giovanni chiama agape e il vangelo del buon pastore rende con dare la propria vita. Nelle letture odierne, infatti, si confrontano due modi di vivere la relazione: da una parte sta il desiderio di possesso, di conquista, di potere; dall’altra l’essere per, che è anzitutto l’essere per di Dio, gratuito e inesauribile; e, poi, l’essere per di tutti coloro che – grazie a Dio che ha donato il suo Figlio – sono anch’essi diventati figli.

Seconda lettura: 1Gv 3,1-2

Il brevissimo passaggio della prima lettera di Giovanni, proposto in questa domenica, basterebbe da solo ad illuminare il cammino pasquale del credente, perché contiene un intreccio suggestivo di tematiche, che non solo permettono una riflessione sulla verità cristiana, ma offrono una sapienza di vita imperscrutabile e, allo stesso tempo, imprescindibile.

Il testo greco inizia con un invito: «Vedete quale grande amore ci ha donato il Padre…». L’invito a vedere ha una funzione importante, perché introduce i lettori allo stupore. Quando si annuncia Dio e il suo amore è necessario partire proprio dallo stupore. L’uomo moderno, l’uomo del tutto e subito, l’uomo tecnico e viaggiatore non ha più tempo per stupirsi e persino l’amore rientra spesso nelle categorie di eventi a cui siamo ormai assuefatti. I bambini – e quelli come loro – hanno ancora occhi vigili per penetrare il mistero segreto delle cose, perché senza stupore si rischia di inaridirsi e di esprimersi solo per luoghi comuni, per assuefazione.

Molti di noi parlano di Dio come se conoscerlo e incontrarlo fosse all’ordine del giorno. La verità è un’altra: Dio rimane un mistero e il suo amore per noi resta avvolto nel segreto della sua imperscrutabile sapienza. Lo stesso aggettivo greco potapos / “quale (amore)” non è un attributo qualunque, perché esprime la diversità di questo amore, l’estraneità alla terra e alle categorie terrene. Più volte il vangelo di Giovanni presenta Gesù come straniero tra i suoi: è lo stesso amore di Dio ad essere straniero. L’agape, infatti, l’amore di Dio non è suscitato dall’attrazione e dall’interesse, e neppure dallo scambio amichevole. È pura gratuità, puro dono: è agape, appunto, e quale agape! Ecco la grandezza del mistero di Dio, davanti al quale l’uomo non può che stupirsi.

Non solo Dio, però, è un mistero. Lo è anche l’essere umano, e Giovanni lo esprime ponendo in dialettica ciò che siamo e ciò che saremo: «noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non ci è stato ancora rivelato». Se, da una parte, è vero che all’uomo è stata rivelata la sua identità di figlio, dall’altra rimane anche vero che il suo futuro è nascosto nella Progetto di Dio. E questo crea una tensione salutare tra ciò che siamo in realtà e ciò che siamo nella speranza, perché l’uomo ha bisogno di essere coniugato al futuro. Mai come oggi la comprensione che l’uomo ha di sé è legata al presente. La sua riuscita è connessa al talento, alla prestazione, al successo immediato… L’uomo contemporaneo deve ormai sempre dimostrare il suo valore, deve sempre giustificarsi davanti al tribunale della società, del posto di lavoro dove opera, dell’ambiente circostante. È il rendimento che giustifica. E questo rende drammaticamente comprensibile il destino delle pietre scartate dai costruttori, che non offrono prestazioni degne di questo mondo. La vera maledizione oggi è che si è qualcuno solo in virtù delle proprie capacità; ci si può affermare solo documentando la propria efficienza. Dire che «non si è ancora rivelato ciò che saremo» significa ritornare a un concetto di gratuità e di dono, che rischia di scomparire dalla nostra vita moderna. Restituito alle possibilità future del Regno, l’essere umano viene ad essere giustificato non già in base al suo ruolo e alle sue prestazioni, ma in base al suo esistere come figlio/a e al suo futuro nascosto in Dio. In questo modo, egli sa che la sua vita ha, comunque, un senso, perché avvolta in un mistero d’amore. Ed è qui che s’innesta il discorso evangelico.

Il Vangelo: Gv 10,11-18

L’immagine del pastore era molto diffusa nel vicino oriente antico per designare dèi e uomini nella loro funzione di governo. I testi mandei, ad esempio, parlano frequentemente di pecore, ovili e di pastori, con diversi compiti, soprattutto legati al comando. Nella gnosi il pastore aveva essenzialmente la funzione di portare all’uomo la rivelazione e la conoscenza salvifica. Ciò che caratterizza, invece, il pastore nella tradizione biblica – e soprattutto in questo famoso passo di Giovanni – è che egli «dà la vita» per il suo gregge. La locuzione greca tithenai tên psychên / dare la vita è piuttosto rara nel greco classico, ma ricorre tre volte nei pochi versetti del brano odierno, mostrando il compito precipuo del pastore e ponendolo in contrapposizione al mercenario, al quale importano solo salario e sicurezza propria.

Tra le righe di questo specifico richiamo al dono della vita si intravede una sottile polemica con quelle categorie altolocate della società giudaica che, invece di occuparsi del popolo, cercavano «gloria gli uni dagli altri» (Gv 5,44) e un ulteriore particolare contrasto con quelle correnti che disprezzavano il popolo ignorante della legge (9,22.34). Ma non è l’aspetto polemico lo scopo principale del vangelo di Giovanni; è decisivo, invece, che l’identità di Gesù, buon pastore, viene definita dal suo essere-per-i-suoi e che questa identità non ha il suo fondamento in motivazioni di carattere sentimentale o psichico, ma nel legame indissolubile che unisce Gesù e il Padre nel dono di sé: «per questo il Padre mi ama, perché io offro la mia vita». Nella comunione indissolubile con il Padre Gesù trova il motivo per andare fino in fondo alla sua missione, offrendo se stesso, liberamente, senza tener conto della propria salvezza.

Questo è il vero tratto originale del Dio biblico. L’immagine di Dio che spesso ci portiamo dietro deriva dalla metafisica più che dalla Bibbia. Il Dio “maximus” – Signore di onnipotenza, grandezza e forza; principio e fonte di ogni certezza e di ogni verità… – riflette spesso la concezione filosofica e politica della regalità, così come si è sviluppata in oriente e in occidente. Una regalità intesa come categoria di potere, così lontana dalla concezione giovannea del Dio che si fa carne e offre la vita per i suoi. Per una teologia metafisica, è assurdo che Dio possa soffrire e morire, che possa farsi impotente debole e derelitto, e che possa fuggire davanti alle folle osannanti che lo vogliono re (Gv 6,15). Il pensare kenotico appartiene alla rivelazione cristiana, e non è semplicemente alternativo o complementare alla teologia della gloria, ma è un modo completamente diverso di pensare Dio.

Gesù non è venuto a spiegare tutte le nostre tragedie, ma ad assumerle in nome dell’amore. È stato detto che «l’amore comincia là dove finiscono le corazze dell’io e l’altro mi interessa più della mia sopravvivenza, di qualunque pretesa di giustizia, di qualunque garanzia effimera o eterna» (Yannaras). È vero: si può parlare di amore dove finisce l’estenuante competizione che porta l’essere umano a giustificarsi e superarsi per arrivare comunque e prima. L’amore inizia quando si abbattono i muri del calcolo e del proprio tornaconto personale, quando si è capaci di subire ostracismo e maledizione per coloro che si amano. Solo chi è in grado di attraversare la morte conosce davvero l’amore.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano