Commento alla Parola nella IV Domenica di Pasqua/C – 11 maggio 2025

Il tema della Domenica

Si sente spesso dire che la crisi di oggi è una crisi di senso. Sballottati dalle onde, senza ideologie sicure e senza punti d’appoggio certi, gli uomini somigliano sempre più a dei naufraghi, in cerca di un fazzoletto di terra su cui stare. Non so se il travaglio del nostro secolo sia poi così diverso da quello di tante epoche trascorse e di tante altre prossime a venire. Una cosa è certa: scorrendo i brani proposti dalla liturgia di questa domenica, si ha la sensazione che la storia possa essere letta a due livelli. Uno è quello degli accadimenti bruti, che si susseguono uno dopo l’altro, tragici e – a un primo sguardo – vuoti di senso e di speranza. L’altro è quello più profondo, invisibile agli occhi dei più, percettibile solo a uno sguardo di fede, che cerca tracce di Dio sulla terra, sapendo che Colui che ha costruito il nostro futuro non ci negherà la sua risposta.

Seconda lettura: Ap 7,9.14b-17

Il brano dell’Apocalisse appartiene alla cosiddetta sezione dei sigilli, che – contrariamente a quanto talvolta si pensa – è una sezione di rivelazioni e non di flagelli, come del resto tutto il libro dell’Apocalisse di Giovanni, che parla della storia e del governo di Dio su di essa e non di eventi catastrofici o di profezie tragiche. Si tratta di una teologia della storia, con le sue tensioni e le sue forze contrastanti, le sue paure e le sue attese. Nel brano odierno si parla di una grande moltitudine di esseri umani, «di ogni gente, tribù, popolo e lingua», schierati davanti a Dio, vestiti del bianco della trascendenza e, nella mano, la palma della vittoria. Di chi si parla? Chi sta a rappresentare questa folla immensa? Gli eletti di Dio? La chiesa? I cristiani fedeli e vittoriosi?

La risposta non è semplice e le numerose opinioni degli esperti lo confermano. La voce di Dio spiega che sono «coloro che vengono dalla grande tribolazione», un termine che evoca forse il dolore per eccellenza: la passione di Cristo. Sono, dunque, coloro che – con Cristo e come Cristo – hanno sofferto e pianto, gridato e lottato: hanno cercato il volto di Dio nel Getsemani e nell’odio riversato su di loro, nella croce e nel dolore. Hanno sofferto, e allora Dio – come fa un beduino nei confronti dei suoi ospiti vessati dal sole cocente del deserto e dal freddo della notte – offre loro riparo sotto una tenda e li invita a essere suoi commensali: «Non soffriranno più né fame né sete, e non cadrà su di loro né il sole né vampa alcuna». Per loro Dio è colui che offre ospitalità e pastore e, mediante Cristo, li guida a sorgenti di acqua viva dove potranno finalmente dissetarsi. Le lacrime saranno loro asciugate e la vittoria sarà il loro canto finale. Dicevo che non è facile identificare questa folla immensa, ma la sua multiforme varietà, la provenienza che va ben oltre i confini disegnati dall’umana sapienza, la caratterizzazione cosmica e la partecipazione alla passione di Cristo sembrano suggerire un’umanità provata, diffusa su tutta la terra e composta di tutti coloro che hanno vissuto e sofferto per amore, come Cristo. Nella loro esistenza la croce non è stata una sconfitta, ma il vessillo regale della vittoria.

Anche noi cristiani abbiamo imparato quel pessimo vizio di leggere la storia dalla parte dei vincitori, dimenticando che la nostra fede nasce dalla sconfitta della croce. Ma è proprio la croce di Cristo a offrire l’altra lettura di cui parlavo all’inizio. Nella croce di Cristo Dio capovolge i criteri della saggezza umana. Un esempio immediato di quanto andiamo dicendo è nella lettura degli Atti ascoltata oggi dove la fuga dalla città di Paolo e Barnaba, provocata dalla gelosia e dall’odio dei nemici, diventa causa di diffusione della parola di Dio. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare questo paradosso cristiano della vita che nasce dalla morte e della speranza che nasce dal sepolcro, per non deprimerci nelle sconfitte e non esaltarci nelle vittorie. Nel cuore spezzato degli uomini, nella tragedia di tanti esseri umani e di una moltitudine di popoli su cui è sempre calato il sipario, perché non funzionali al sistema, la croce di Cristo annuncia l’avvento di un nuovo giorno: il primo della settimana.

Il Vangelo: Gv 10,27-30

L’immagine del buon pastore è strettamente connessa alla moltitudine di cui si parla nell’Apocalisse, non solo perché l’Agnello morto sulla croce è pure il Pastore che ha dato la vita per il suo gregge, ma anche perché – al di là delle notizie di prima pagina, che riceviamo ogni giorno – la storia di tanti uomini e donne è la storia di chi soffre per amore: per uno straniero, per un affamato, per un figlio o un vecchio fragile adagiato su un letto di dolore… I pochi versi del vangelo di Giovanni offrono un modello perenne dell’amore autentico, che accomuna uomini e donne di ogni razza, popolo e lingua: un modello, dice Giovanni oggi nel Vangelo, fondato sulla conoscenza, sull’offerta della vita e sulla comunione tra Padre e Figlio.

La conoscenza, anzitutto. «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e Gesù Cristo che hai mandato» (Gv 17,3). La vita è definita qui dal verbo conoscere, che non ha nulla a che fare con la conoscenza puramente intellettuale dell’occidente e tanto meno con una conoscenza di tipo gnostico. Nel senso semitico, conoscere ha a che fare con una relazione di autentica intimità, che esige impegno e responsabilità, premura e amore. La vita cristiana nasce da questa esperienza di conoscenza profonda di appartenere al Padre e al Figlio, che egli ha inviato nel mondo. Non c’è altra sorgente di vita che la relazione con Dio. I credenti sapranno ritrovare il loro posto nel mondo quando avranno recuperato nella loro vita l’esperienza di Dio. Un’esperienza che non è avvinta a legami convenzionali e formali, perché Dio può far sorgere figli di Abramo perfino dalle pietre. L’uomo che ha stabilito con Dio un rapporto di conoscenza, non può più fare a meno di Dio, non può più liberarsi di lui, non può più andarsene. Come la madre dal proprio figlio, o come la donna dall’uomo che ama. Il dono della propria vita è solo il segno supremo di questa intimità.

L’offerta della vita. Il pastore conosce e offre la vita per il suo gregge. L’essere di Dio è un essere-per-l’altro. Chiunque altro. Siamo noi che facciamo distinzioni tra degni e indegni, nobili e comuni… Dio, no. Dio va in cerca della pecora smarrita e quella ferita la mette sulle spalle. Dio non è un mercenario a cui importano solo la propria sicurezza e sopravvivenza. In più di un’occasione i Vangeli mettono in risalto la possibilità, che aveva Gesù, di salvare la propria vita, percorrendo una strada di potere. Soprattutto Luca insiste su questa tentazione. Nel momento supremo della croce, per tre volte, si ode: «Se sei il Cristo, salva te stesso» (Lc 23). Ma la logica di Dio è del tutto opposta a quella del mercenario, che fugge quando si accosta il pericolo o il nemico. È un’altra logica, un’altra prospettiva. È un sentire che noi purtroppo non abbiamo, perché l’Amore in realtà non ci appartiene. A noi è dato di vivere frammenti di amore, ma in verità non sappiamo cosa sia l’Amore. Solo Dio è amore, e solo lui può regalarcelo.

La comunione d’amore. L’amore in Dio si chiama Padre, Figlio e Spirito. In Giovanni il legame di amore che esiste tra Padre e Figlio percorre tutto il Vangelo. È un legame impegnativo, perché implica la missione, l’obbedienza e il dono della vita. È da questo amore che nasce un percorso di gratuità, creativo, efficace, capace di uscire da se stesso, di andare eis telos, che non significa solo “fino alla fine”, ma anche “fino al compimento supremo”. Mi pare che la testimonianza di cui il mondo ha bisogno da parte degli uomini di chiesa sia questa, e non altra.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano