Il tema della Domenica
Leggendo la storia della salvezza nella Bibbia, ci si rende conto quasi per incanto, di un filo rosso che l’attraversa: l’avvicendamento continuo tra fedeltà di Dio e ribellione umana. È soprattutto grazie alla catastrofe dell’esilio (nel 587 a.C.) che la coscienza d’Israele imparò a rileggere il suo passato percependo la sua storia come una storia di infedeltà e di peccato, in antitesi all’opera di liberazione di Dio. Nello stesso tempo però, ogni giorno di più, si prese coscienza che l’offerta di salvezza trascendeva continuamente le possibilità umane, aprendole a progetti di speranza. Così, muovendo da singoli avvenimenti storici, lo sguardo si orientò verso un compimento futuro. Le letture di questa quarta domenica di quaresima ci offrono l’occasione di rileggere la storia di tutti e di ciascuno in questo orizzonte di infedeltà e di grazia e di alzare lo sguardo verso la liberazione definitiva.
La prima lettura: 2Cr 36,14-16.19-23
La prima lettura ci presenta la pagina finale dei due libri delle Cronache, con la caduta di Gerusalemme, la demolizione delle sue mura e l’incendio del tempio da parte delle armate del re di Babilonia Nabucodonosor. Nella Bibbia ebraica, i due libri delle Cronache vengono denominati libri delle vicende quotidiane, quasi a significare che dietro la storia di ciascuno e di tutti si nasconde un Progetto invisibile, difficile da discernere e, tuttavia, reale.
Impressiona soprattutto il fatto che la storia del popolo di Dio non viene dipinta come una storia di singole ribellioni, ma come un generale e costante atteggiamento di rivolta: un peccato che si ripete con una regolarità impressionante, dall’origine fino all’esilio. Nonostante i ripetuti inviti alla conversione, un popolo intero cammina verso la rovina, sotto il peso della decadenza, del cinismo e della corruzione. «Il Signore Dio dei loro padri mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché amava il suo popolo e la sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti…».
In effetti la storia dei profeti di Dio è una storia segnata dal rifiuto: Geremia venne fustigato ed esposto alla gogna (Ger 20,2), il profeta Uria, che parlava come Geremia, fu giustiziato con la spada e fatto gettare nella fossa comune, Zaccaria fu lapidato negli atri del tempio (2Cr 24,17-22). Nella tradizione giudaica il legame tra profeta e martirio divenne talmente stretto da assumere quasi i contorni di una necessità storica: nella considerazione di tutti, Isaia era il martire segato e Geremia si pensava fosse stato lapidato o bruciato vivo. Nehemia, ripercorrendo la storia dei padri in una bella preghiera che si trova nel capitolo nono del suo libro, afferma fra l’altro: «… furono ritrosi e ribelli a te; si gettarono la tua Legge dietro le spalle e uccisero i tuoi profeti che li ammonivano per ricondurli a te…» (Ne 9,26).
Il crollo di Gerusalemme fu visto come la conseguenza di questo disprezzo totale di Dio e dei suoi inviati: Gerusalemme fu conquistata, il tempio distrutto, la famiglia reale giustiziata e il popolo condotto lontano dalla terra. Geremia lo aveva predetto: «… la morte è entrata per le nostre finestre, si è introdotta nei nostri palazzi, abbattendo i fanciulli nella via e i giovani nelle piazze. I cadaveri degli uomini giacciono come letame sui campi, come covoni dietro il mietitore e nessuno li raccoglie» (Ger 9,20-21). Immagini intrise di dramma, che racchiudono un motivo teologico inquietante: se il popolo di Dio viene calpestato, non è calpestato Dio stesso? E se ci sono persone violentate e deturpate, annientate dal dolore e dall’arroganza dei potenti di turno, non è spezzato lo stesso cuore di Dio? È così che, lentamente, nella preghiera e nella riflessione di Israele si fa strada un nuovo giorno, che dapprima albeggia, da lontano, e poi diventa sempre più luminoso, fino a risplendere nella luce del Vangelo: la luce è venuta nel mondo e gli uomini hanno continuato a preferire le tenebre alla luce e tuttavia, nonostante ciò, la luce non è stata vinta (Gv 1,5).
Il Vangelo: Gv 3,14-21
Il passo del Vangelo di Giovanni, tratto dall’episodio dell’incontro di Gesù con Nicodemo, parla per l’appunto della lotta tra luce e tenebre. Una lotta che continua ancora oggi sulle strade del mondo, nei palazzi del potere fino ai ghetti degli esseri umani più derelitti e abbandonati.
Il racconto su Nicodemo inizia con la notte e finisce con un appello di Gesù a passare dalle tenebre alla luce. Tutto l’incontro sembra tenuto insieme da questa grande e significativa inclusione. In effetti, Nicodemo è una persona paradigmatica, che rappresenta in qualche modo la situazione del popolo di Dio, ma anche di ogni essere umano di fronte a Cristo. «Venne a Gesù di notte», riferisce Giovanni. Una storia, dunque, il cui punto di partenza è rappresentato dalle tenebre, ma che poi, nel procedere della narrazione, diventa sempre più impregnata di luce. E quando Nicodemo, dopo due interventi, scompare dalla scena, il dialogo tra Gesù e il suo privato interlocutore si trasforma in un grande monologo (Gv 3,11-21), dove si passa dal “tu” (1-10) al “voi” (11-21), coinvolgendo i lettori di ogni tempo e rendendo più tangibile la funzione rappresentativa di Nicodemo. Egli si era presentato a Gesù baldanzoso e sicuro di sé, iniziando il discorso con un arrogante “noi sappiamo…”: rappresentante di tutti quelli che fanno leva sul sapere e sul potere. A poco a poco, da quel «noi sappiamo…», Nicodemo passa a essere un silenzioso uditore della Parola, perché solo colui che ascolta è in grado di transitare dalle tenebre alla luce. Agli esseri umani che, come Nicodemo, si nutrono dell’arroganza, senza rendersi conto che brancolano invece nel buio, Gesù addita una strada maestra per diventare vedenti: gettare lo sguardo sul Figlio dell’uomo innalzato sulla croce: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’Uomo». Il paradosso giovanneo è questo: la croce non è un cammino di morte, ma di vita; non sfocia nel buio della notte ma nella luce del giorno, perché testimonia l’amore di un Dio che «ha amato il mondo fino all’estremo», inviando il suo Figlio, «perché chiunque crede non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
È la croce di Cristo, dunque, che segna il passaggio dalle tenebre alla luce, perché morire per qualcuno è ciò che dà senso alla vita e perché quando si vive e si muore per amore anche la storia più tenebrosa viene illuminata e accolta. La nostra esistenza può essere ciò che si vuole: onorata, eroica, nobile, oppure povera, sconfitta, umiliata… può raccogliere molto onore o molto biasimo. In ogni caso, Dio si è fatto vicino a questa nostra storia, l’ha amata, e la croce di Cristo è il grande segno di questa vicinanza e di quest’amore. Nessuna lacrima scorre più invano, nessuna sofferenza dimenticata, nessuna lacrima perduta… Guardando la croce, tutto riceve senso, perché tutto viene ricapitolato e ricondotto nel mistero di salvezza. È il cammino che Nicodemo è chiamato a percorrere e, con lui, tutti coloro che vogliono dare senso alla vita.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano