Il tema del Venerdì Santo
Per un credente in Cristo interrogarsi sul significato della croce significa scrutare il senso della propria vita e della propria morte. Non possiamo negare che l’etica dominante, oggi come ieri, è dalla parte del successo personale e la comprensione che l’uomo ha oggi di sé è spesso legata alla prestazione e alla riuscita. Rispetto a questa visuale, la croce di Cristo offre un’altra immagine di Dio e dell’uomo. La croce mostra l’altra faccia delle cose: dice che la vittoria è nell’oblazione, e che la salvezza dell’uomo è fondata non sul piedistallo delle diplomazie o della sapienza mondana, ma sul dono. Credere nella vita che muore per amore significa credere che, nel nostro vissuto quotidiano, esiste un altro ordine di verità ed è su questo ordine totalmente diverso dai criteri mondani che oggi siamo introdotti dalla passione secondo Giovanni.
Il Vangelo: Gv 18,1-19,42
Come nei Sinottici, anche in Giovanni la passione e la morte di Gesù costituiscono il vertice della narrazione e della riflessione teologica, ma – a differenza dei Sinottici – in Giovanni la croce non è abominio e maledizione, ma “innalzamento” ed “esaltazione”. A Nicodemo Gesù aveva detto: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in lui non muoia ma abbia vita eterna» (3,14-15). E in un’altra occasione, aveva proclamato: «E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). In Giovanni l’elevazione incomincia sulla croce e questo fatto teologico ha almeno due implicazioni, indissolubilmente connesse.
La prima è che negli scritti giovannei è in qualche modo carente la visuale dell’espiazione e del sacrificio espiatorio: il Quarto vangelo è privo dell’idea di sacrificio che è stata poi espressa nella dottrina della soddisfazione. Nel ristabilimento dell’ordine danneggiato irrimediabilmente dal peccato – come se l’umanità fosse detenuta in un sistema giuridico nel quale alla violazione deve necessariamente seguire la riparazione – non trova posto nella theologia crucis giovannea.
La seconda implicazione – intimamente legata alla prima e in qualche modo fondante e anteriore a quella appena descritta – è l’Amore come ragione ultima della missione e della morte di Gesù. Lo abbiamo meditato nel giorno di ieri: «… avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino al compimento (eis telos!). Lo abbiamo visto: a eis telos corrisponde l’ultima parola di Gesù: tetelestai (è compiuto!) e, in questo modo, tutta la vita di Gesù è posta sotto il segno del dono gratuito. In nessun racconto evangelico traspare così potente la funzione sovvertitrice dell’Amore di Cristo e nessuno è più esplicito nel dichiarare che i poteri umani, anche i più atroci e organizzati, hanno un limite radicale, perché non hanno il potere di vincere la morte. Una bella preghiera di Efrem il siro si esprime così: “Come un cercatore di perle ti sei immerso negli inferi, per cercare la tua immagine inghiottita dalla morte… e la tua misericordia è stata ricompensata, perché hai visto Adamo ricondotto all’ovile”.
Detto questo, bisogna ammettere tuttavia che l’impostazione teologica scelta da Giovanni potrebbe risultare irritante. Lo stesso confronto con i racconti sinottici potrebbe gettare un’ombra di scetticismo sulla visione del Gesù crocifisso che trionfa: quasi un superman sempre vittorioso e inavvicinabile. Durante la passione e la salita al calvario, infatti, Giovanni ometterà i dettagli penosi e avvilenti che troviamo, invece, nei Sinottici: nessuna agonia nel Getsemani, nessuna menzione degli scherni nella casa del sommo sacerdote, nessun cireneo che aiuta Gesù sfinito a portare la croce, nessun riferimento alle tenebre al momento della morte… Il dolore è un problema reale e scandaloso, che mette in causa l’uomo, ma soprattutto Dio e la visione giovannea sembrerebbe smentirlo. Come si può pensare alla passione e morte degli innocenti, vissuta non nel segno di uno scandalo che mette in questione Dio stesso, ma nel segno di una sua vittoria sul mondo? Penso in questo momento alle domande di Ivan ad Aljoša ne I fratelli Karamazov: «… gli adulti hanno mangiato il frutto proibito e conosciuto il bene e il male… ma i bimbi non hanno mangiato nulla e non sono ancora colpevoli di nulla… ». È vero, a prima vista, il crocifisso di Giovanni potrebbe sembrare irreale e lontano dalla sensibilità dell’innocente che soffre. Più vicini appaiono i testi dei sinottici. Marco racconta i fatti in maniera cruda, accentuando la vergogna della croce e dunque lo scandalo della sofferenza; la narrazione di Matteo ha un andamento catechetico, liturgico e mira alla formazione di una comunità cristiana che interpreti gli eventi alla luce della fede; Luca, oltre alla sua preoccupazione per lo svolgimento dei fatti, presenta la passione di Gesù come un modello per il discepolo, un invito alla sequela “personale” anche sulla strada ardua della croce. Giovanni, invece, sembra proporre un Gesù distaccato, superiore agli eventi, inattaccabile e solido davanti alla sofferenza.
E tuttavia, a pensarci bene, è proprio il Quarto Vangelo che coglie, più di ogni altro, l’intimo nesso tra passione e resurrezione, tra umiliazione e gloria, grazie soprattutto a una riflessione profonda sulla forza trasfigurante dell’Amore. In Gv 16,21 troviamo una metafora fulgida del discorso sulla croce che andiamo facendo: l’immagine della partoriente. Il momento di sofferenza da parte di Gesù e dei discepoli è paragonato a quello di chi partorisce e soffre «perché è giunta la sua ora, ma appena ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’angoscia per la gioia che è venuto al mondo un essere umano» (16,21). Il parto è esperienza di fragilità e dolore, vulnerabilità e paura, ma anche metafora di fecondità e di vita. Il parto è così, perché così è la vita, di cui il parto è principio e fondamento: vivere significa fare esperienza di pienezza e minaccia incombente, speranza e paura. È la nostra vita che trova nell’esperienza del parto il simbolo antropologico più veritiero. L’ora di Gesù in Giovanni è vista come l’ora del parto: dolore fecondo, sofferenza che genera vita. Tutto trasfigurato dall’Amore! Grazie all’Amore la morte è trasformata in vita e il chicco di frumento che cade in terra «muore», ma «porta molto frutto» (Gv 12,24). Sulla croce tutto sembra finito, ma in realtà – ed è l’ultima parola di Gesù nel racconto di Giovanni – tutto «è compiuto». Nella croce di Cristo nessun uomo è solo, nessuna sofferenza è inutile, nessun sospiro è dimenticato, nessuna lacrima è pianta invano, perché Dio porta tutto a compimento: grazie all’Amore, con il quale Gesù ha amato i suoi “sino all’estremo” (13,1). È per questo che Dostoevskij, quando parla del Cristo, ne parla in categorie giovannee. Il grande scrittore russo aveva conosciuto le miserie della natura umana, le passioni che avviliscono e che esaltano; aveva esplorato i labirinti dell’anima, cercando una via d’uscita… L’ha trovata nel Cristo, o meglio, nel Cristo di Giovanni, che illumina le tenebre proprio nel momento in cui scende nel buio secondo la bella immagine de seme che porta frutto quando cade in terra e muore (Gv 12,24).
Questo significa che anche l’oscurità e le tenebre testimoniano la presenza e la fedeltà di Dio, la Sua estrema solidarietà. Forse si deve dire che al dolore umano Giovanni offre un senso e questo significa che, nella fede, un’esistenza vissuta nella fedeltà e nell’amore è feconda, anche se devastata dal patire. Nella fede ha un significato non soltanto il fiore che sboccia, ma anche la foglia secca che marcisce e posso incontrare Dio non soltanto nella luce abbagliante della bellezza, ma anche nell’oscurità dell’angoscia e della sofferenza. Il dolore rimane un mistero, che trova però la sua metafora appropriata non nel rantolo del morente, ma nelle doglie di una partoriente.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano