Il tema del giorno
Per le prime comunità cristiane, la cena del Signore non era un rito abitudinario, da espletare in un tempo ragionevolmente breve per lasciare spazio poi alla vita. Per i primi cristiani la cena del Signore era memoriale e attesa, evento di vita e profezia, segno di amore redentivo e di comunione, di ringraziamento e di lode, di stupore ininterrotto e promessa inestinguibile. Non c’erano ancora le rughe e i sintomi di fissità e stanchezza che contrassegnano in gran parte le nostre celebrazioni liturgiche, perché nel segno del pane e del vino i cristiani ritrovavano la filiazione e la comunione perduta, il senso della vita e la speranza oltre la morte. Elementi tutti che possono essere rinvenuti nei racconti dell’alleanza del Sinai e nell’alleanza di Cristo, offertici dalle letture odierne.
Prima lettura: Es 24,3-8
Due elementi colpiscono nella lettura del racconto dell’alleanza sinaitica, l’avvenimento più importante del Primo Testamento. Anzitutto il sangue, che Mosè sparge metà sull’altare e metà sul popolo riunito. Nella concezione antica, il sangue è il principio vitale, l’elemento più prezioso e misterioso, perché la vita di ogni carne è il suo sangue (Lv 17,14). Il sangue sparso sull’altare di Dio e sul popolo rappresenta dunque la comunione di vita: da questo momento Dio e il popolo stringono un patto di vita, di solidarietà e di reciproca appartenenza.
Il secondo elemento è sulla stessa lunghezza d’onda: Dio parla e il popolo promette di “fare” ciò che YHWH ha detto. Il Signore e il popolo, uno di fronte all’altro: Dio sarà per sempre il Dio di questo popolo e Israele sarà per sempre il popolo di Dio. Grazie a questa alleanza, Israele non dovrà più andare errando nel deserto, perché ora conosce il cammino; non temerà più l’arsura di una terra desolata, perché ha scoperto la sorgente d’acqua zampillante; non soffrirà più la solitudine, perché il suo alleato è anche il suo sposo; non avrà più paura del lupo della steppa e della valle tenebrosa, perché ha un pastore che lo conduce.
Da questo, i profeti rimarcheranno giustamente che la relazione stabilita con l’alleanza è una relazione d’amore, esuberante e viva, come l’amore. E anche quando – come ogni relazione – l’alleanza correrà il rischio di diventare un’istituzione immobile e senza più linfa vitale, una regola senza spirito, un dovere senza entusiasmo…, anche nella sclerosi dei riti e delle usanze ripetute ormai all’infinito senza gioia, i profeti ricorreranno di continuo al momento della stipulazione, alla purezza originaria, annunciando che Dio inizierà di nuovo, come in principio, a motivo del suo amore.
Geremia, infatti, descriverà la nuova alleanza non come un rinnegamento dell’antica, ma come un suo rinnovamento, su basi nuove. La precedente era connotata dall’incapacità strutturale che l’uomo ha di osservare la Torah, perché questa era chiara nelle sue esigenze, ma era scritta sulla pietra, era esterna all’uomo. Nella nuova alleanza, invece, i contenuti della Torah saranno scritti nell’intimo. Si tratta della stessa Torah ma scritta con il dito di Dio nel cuore dell’uomo. L’antitesi non è tra due alleanze, di cui una soppressa e l’altra in vigore, ma tra il passato, qualificato dalla violazione continua del patto, e il futuro, definito dall’azione di Dio, che perdona e trasforma, ricostruisce e rinnova.
Il Vangelo: Mc 14,12-16.22-26
I primi cristiani hanno letto la vita e la morte di Gesù come ricostituzione definitiva dell’alleanza tra Dio e l’uomo peccatore. È paradossale che Marco ponga il racconto dell’istituzione dell’eucaristia tra il tradimento di Giuda e l’annuncio del rinnegamento di Pietro e di tutti i discepoli. Racconta infatti Marco che prima dell’immolazione della pasqua e prima di mettersi a tavola con i suoi discepoli, «Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai sommi sacerdoti, per consegnare loro Gesù» e da quel momento «cercava l’occasione per consegnarlo» (Mc 14,10-11). E, dopo aver consumato la pasqua con i suoi, lungo il cammino verso il monte degli ulivi, a Pietro che protestava per l’annuncio dello scandalo che si sarebbe abbattuto sui discepoli, Gesù disse: «In verità ti dico: proprio tu oggi, in questa stessa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte» (Mc 14,30). È, dunque, per una comunità di peccatori che Gesù pronuncia la benedizione sul pane e sul calice, è per loro che offre il suo corpo e il suo sangue. Il pane spezzato e il vino sparso sono per Marco una chiara metafora della morte; una metafora della morte di Gesù che liberamente offre se stesso per ristabilire la comunione con Dio. I gesti fanno parte del banchetto pasquale ebraico, ma l’insistenza è sull’offerta personale: questo è il mio corpo… questo è il mio sangue… Non si tratta più del sangue di tori e di agnelli, ma del sangue di Cristo. Alla sua comunità, che lo tradisce e rimane scandalizzata, Gesù manifesta – ancora una volta – la compassione e la presenza di Dio, il suo “sì” incondizionato al mondo e all’uomo. L’eucaristia è la vera buona notizia del Vangelo e di tutto il Nuovo Testamento. È vero, Dio non è venuto a cambiare le cose, a riorganizzare la società umana secondo giustizia, a vendicare i poveri…; non ha mostrato la sua forza davanti ai deboli e la sua integrità davanti ai peccatori… Il senso della visita di Dio è nel mistero eucaristico: Dio ama l’uomo, Dio ama il mondo, senza pentirsene, e per questo amore è pronto ad accettare il tradimento e la condanna, il ripudio e la morte. Perché l’amore di Dio non si nutre della ragionevolezza di uomini benpensanti, che camminano solo su strade lastricate di perbenismo; l’amore vive di ciò che dona. È questo il mistero eucaristico.
Ma c’è un secondo aspetto messo in rilievo da Marco con il logion sul futuro banchetto escatologico: «In verità vi dico, io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò di nuovo nel regno di Dio». La fede eucaristica non esaurisce la speranza nel presente. Una chiesa che vivesse solo delle certezze che le derivano dai suoi successi o delle insicurezze che le provengono dai suoi fallimenti sarebbe una chiesa ben povera e, di certo, non sarebbe una chiesa eucaristica. Una fede che non spera è malata. L’eucaristia è il segno che Dio ha incominciato la sua opera e la porterà a compimento, perché Dio non lascia niente d’incompiuto. Soprattutto nella crisi del limite, quando fa capolino la profonda delusione nella Promessa e diventa più evidente lo scarto che esiste tra la speranza coltivata e i risultati ottenuti…, proprio allora l’eucaristia diviene il segno del futuro di Dio sull’altare spoglio della terra su cui ogni uomo – e soprattutto chi non ha né pane né vino – potrà gridare a Dio il suo dolore. «Poiché una volta ancora, o Signore, io non ho né pane, né vino, né altare… Questo pane, il nostro sforzo, non è di per sé che un’immensa disgregazione. Questo vino, il nostro dolore, non è purtroppo che una bevanda dissolvente… Ma in fondo a questa massa informe tu hai messo un desiderio irresistibile e… poiché, irrimediabilmente, io riconosco in me, ben più di un figlio del cielo, un figlio della terra, salirò stamane, con il pensiero, sulle più alte vette carico delle speranze e delle miserie di mia madre… In questo pane, ove hai racchiuso il germe di ogni sviluppo, riconosco il principio e il segreto dell’avvenire che tu mi riservi… Signore Gesù, accetto di essere posseduto da te, e guidato dalla potenza del tuo Corpo, verso vette deserte ove, solo, non avrei mai osato salire… Sulla tua Parola mi precipito nel turbine delle lotte e delle energie in cui si svilupperà la mia capacità di cogliere e di sperimentare la tua Presenza» (Teilhard de Chardin).
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano