Il tema del giorno
La tradizione cristiana ha continuamente e giustamente insistito sulla prossimità di Dio, sulla sua accessibilità e sulla sua presenza, perché nel Verbo fatto carne Dio è presente. E tuttavia, esiste un’altra dimensione biblica, altrettanto vera e sostanziale, senza la quale il Dio vicino rischia di diventare un idolo nelle mani dell’uomo, un dio manipolabile, a disposizione dei capricci umani. QL’altra dimensione di Dio che è necessario considerare insieme alla sua «vicinanza», si chiama «alterità», «mistero». Nell’accezione moderna, il mistero evoca quasi naturalmente il senso del limite e il termine è diventato sinonimo di ignoranza. Non era così nell’antichità, e senz’altro non è così nella Bibbia. Perché, in fondo, è proprio nella vicinanza, nella reciprocità intima di dedizione e di amore, che si sperimenta maggiormente il mistero. Si può essere veramente vicini solo quando si riconosce la distanza, solo quando si riconosce l’altro come “altro” da me. Si è capaci di amare un uomo o una donna solo quando se ne riconosce e se ne adora il suo insondabile mistero. L’amore è – allo stesso tempo – espressione di vicinanza e di mistero insondabile. Particolarmente l’amore divino, perché essere amati da Dio e amare Dio è un grande mistero ed è questo l’annuncio gioioso della festa di oggi.
Prima lettura: Dt 4,32-34.39-40
Il libro del Deuteronomio testimonia come vicinanza e mistero di Dio siano indissociabili. Da una parte, infatti, il Deuteronomio insiste volentieri sul fatto che YHWH è vicino a Israele. In un testo estremamente suggestivo, parlando della sua Parola, Dio dichiara: «non è di là dal mare, perché tu dica: chi attraverserà per noi il mare per prendercela e farcela udire…? No, questa Parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore!» (Dt 30,13-14). In un altro passo, di fronte alla paura nei confronti delle nazioni circostanti, potenti e agguerrite, Dio fa sentire la sua vicinanza, esortando Israele a «non tremare davanti ad esse, perché il Signore tuo Dio è in mezzo a te!» (Dt 7,21). Dio non è un Dio lontano e ne ha dato prova continuamente per mezzo di segni e prodigi a favore del suo popolo.
Eppure, se Dio parla, la sua voce risuona in mezzo al tuono; se si manifesta, lo fa mediante il fuoco, e Israele deve tenersi distante dalla montagna di Dio (Es 19). In questo senso, Dio è lontano, perché non può essere rinchiuso dentro gli steccati di logiche umane. E, quando Israele pretenderà di confinarlo nei santuari e nel tempio, Dio romperà gli argini, lasciando capire che la sua casa è tra coloro che osservano i suoi comandamenti e fanno la sua volontà. La religione non ha il potere di ri-legare Dio, perché Dio è libertà suprema e la sua logica non è alla nostra portata. Dio è lassù nei cieli e quaggiù sulla terra, proclama il Deuteronomio, cogliendo così il centro vitale della fede biblica.
La storia d’Israele e la stessa storia della Chiesa lo hanno dimostrato a sufficienza: quando l’uomo religioso ha voluto catturare Dio, quando ha voluto ridurlo alle sue unità di misura, Dio si è sottratto alla presa, perché l’essere umano non è in grando neppure di possedere sé stesso, tanto meno Dio. Dio è lassù e quaggiù, ma proprio questo lo rende inaccessibile, perché all’uomo non è dato di essere lassù nei cieli e quaggiù sulla terra. All’uomo è dato di camminare a tentoni, nel crepuscolo.
In genere, questa visione di Dio, propria del Primo Testamento, è stata letta dalla tradizione cristiana come una visione “imperfetta”, destinata ad essere superata dal Dio di Gesù, sempre amorevole e presente all’uomo. In realtà, però, le cose non stanno così. La verità biblica sulla vicinanza e sulla distanza di Dio è anche una verità cristiana, come ricordavo nell’introduzione a questa domenica. L’essere vicino e lontano è proprio di ogni amore, e soprattutto dell’amore divino. Perché il Dio grande e terribile ha scelto una nazione insignificante per rendergli testimonianza? Perché si è rivelato a un piccolo popolo e ha stretto con lui un’alleanza eterna? A queste domande la logica umana non trova una risposta adeguata. Che Dio abbia amato un popolo così poco rilevante, che Dio abbia amato l’essere umano nella sua estrema fragilità resta un mistero. Un mistero che la predicazione e le opere di Gesù hanno notevolmente rimarcato, perché nel profeta di Nazareth il Dio della gloria si è fatto figlio dell’uomo, debole e povero, fragile e sofferente, nascosto agli occhi dei sapienti di questo mondo e rivelato solo allo sguardo dei piccoli (Mt 11,25-30).
Il Vangelo: Mt 28,16-20
L’ultima pagina di Matteo permette di approfondire gli aspetti appena commentati sulla vicinanza e l’inafferrabilità di Dio. Matteo conclude il suo Vangelo come lo aveva iniziato, con una bella e solenne conclusione che richiama la profezia dell’Emmanuele, il Dio con noi.
Io sono con voi è un leitmotiv della letteratura biblica, che si trova nei più svariati contesti del Primo Testamento, ma che non va fraintesa, perché Dio-con-noi significa molto di più che Dio accanto a noi. Dio-con-noi significa che Egli ha voluto essere come noi, ha assunto la nostra carnalità e la nostra causa; le nostre paure, le nostre sofferenze, i nostri stracci… Hanno ragione, dunque, quegli studiosi che scorgono in quel Io-sono-con-voi non tanto la promessa di una presenza cultica, ma di una Presenza da riconoscere nella storia e nella fatica quotidiana. Agli undici discepoli, dilaniati tra adorazione e dubbio (28,17), Gesù offre dunque una certezza assoluta: il loro cammino nel mondo non sarà un cammino solitario, perché la presenza di Dio, manifestatasi in Gesù messia, proseguirà nel loro viaggio in mezzo agli uomini.
Eppure, a ben guardare, questa ultima pagina di Matteo lascia tutto avvolto nel mistero, perché l’Emmanuele, Dio-con-noi, viene presentato semplicemente con il suo nome Gesù. Il Risorto che si avvicina a loro non è altri che lo stesso Gesù, rifiutato, condannato e crocifisso. Nella conclusione di Matteo manca un grande titolo cristologico: non vengono utilizzati né Christos né Kyrios, che pure sono fra i titoli di maggior peso nel Primo Vangelo. Si parla semplicemente di Gesù che si presenta. Dietro questo fenomeno si nasconde un messaggio, che riluce anche in altri settori del Vangelo. Ai lettori viene detto che il Signore risorto, il Pantocrator, rivestito di ogni potestà (28,18), Colui che ha in mano i destini della storia del mondo, l’Emmanuele, Dio-con-noi, non è altri che il Gesù terreno, che aveva sperimentato la sconfitta della croce. Matteo si fa avvocato del Gesù storico, per mettere in guardia il lettore da eventuali fraintendimenti: la Presenza dell’Emmanuele, Dio-con-noi, non dovrà essere ricercata nei grandi portenti e nelle visioni eclatanti, ma nell’esperienza quotidiana e contraddittoria della vita: tra i dubbi, le tribolazioni, le peripezie e le persecuzioni degli uomini. Sarà una ricerca faticosa, avvolta nel mistero, mai posseduta, sempre richiesta. Come afferma una bella preghiera di sant’Anselmo: «Non ti ho visto mai, Signore mio Dio, né conosco il tuo volto… Sono stato fatto per vederti e non ho ancora realizzato ciò per cui sono stato fatto… Mi sia concesso di intravedere la tua luce almeno da lontano, almeno dal fondo della mia miseria. Insegnami a cercarti e mostrati quanto ti cerco, perché non ti posso cercare se tu non mi insegni, né trovare se tu non ti mostri. Possa cercarti con il mio desiderio e desiderarti nella mia ricerca. Ti possa trovare amandoti e, trovandoti, ti possa amare».
Si ritorna così al mistero dell’amore da cui siamo partiti. In fondo, è proprio questo il senso della conclusione di Matteo e della bella formula trinitaria con cui si chiude il Vangelo. Di Dio possiamo vedere solo le tracce, quando Lui è già passato ed è ormai invisibile, ma il battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo ci offre la certezza che queste tracce ci sono e sono i semi di amore che sapremo scorgere e di cui sapremo farci responsabili nei sentieri del tempo.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano