Il tema della Domenica
L’ascensione al cielo del Signore Gesù appartiene al grande mistero di fede, che conosciamo come l’esaltazione di Colui che fu rigettato e crocifisso. Luca presenta l’ascensione al Padre come il momento più elevato del cammino di Gesù verso Gerusalemme: un cammino di passione e innalzamento che ha il suo compimento nell’incontro con il Padre. Proprio così: l’ascensione è un incontro e una promessa: «Ora voi soffrite, ma io vi rivedrò e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,22). Come credenti, dunque, siamo chiamati a riflettere ancora una volta sul mistero fondamentale della nostra salvezza, alla luce dell’ascensione di Cristo alla destra del Padre.
Prima lettura: At 1,1-11
Nell’ottica degli Atti non si comprende la Chiesa se non in riferimento a Cristo, a ciò che egli «fece e insegnò, dall’inizio fino al giorno in cui fu assunto in cielo…». Non c’è un tempo di Gesù e un tempo della Chiesa, perché la chiesa non ha altre ragioni di esistere se non quelle che le derivano dalla Presenza del Risorto in mezzo ad essa. Una comunità cristiana che si preoccupasse solo di sé e della sua sopravvivenza, affidandosi agli architetti di questo mondo o alla sua capacità organizzativa o di persuasione sarebbe destinata inevitabilmente al fallimento, perché la Chiesa è di Cristo! Lo diceva già Ignazio di Antiochia: «Non abbiate Gesù Cristo sulle labbra, e il mondo nel cuore…». Lo ribadiva, alcuni decenni fa, il patriarca ecumenico ortodosso della chiesa di Costantinopoli, Atenagora, il quale lanciava un ammonimento ai cristiani di tutte le confessioni: «I sedicenti cristiani non vivono la risurrezione, non vivono da risorti! Hanno perduto lo spirito del Vangelo. Hanno fatto della chiesa una macchina, della teologia una pseudo-scienza, del cristianesimo una vaga morale… Abbiamo bisogno di uomini che facciano l’esperienza della risurrezione di Cristo…». Il regno di Dio si costruisce con la potenza del Risorto: non esiste altra via che questa.
Dal primo importante fondamento, appena menzionato, il libro degli Atti ne fa scaturire un secondo, bene espresso dalle parole con le quali i due uomini in bianche vesti apostrofano gli apostoli che stavano fissando il cielo: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?». Anche nel racconto della tomba vuota, Luca ricorda il rimprovero dei due uomini in bianche vesti alle donne accorse alla tomba: «Perché cercate il vivente tra i morti?» (Lc 24,4). Il rimprovero ha la funzione di distogliere i discepoli da una comprensione distorta dell’ascensione di Cristo al cielo e di richiamarli al compito che sta loro dinnanzi.
Il tempo del già e non ancora è il tempo dell’annuncio del Regno, della fatica quotidiana e del servizio. Gli uomini della risurrezione non amano il cielo a scapito della terra, perché le attese del Regno definitivo coincidono con le speranze quotidiane dell’uomo, e i gemiti dello Spirito si manifestano nei gemiti dell’uomo che ha fame e sete, è nudo, straniero, carcerato… Pensare alle cose di lassù, non significa essere sognatori, ma viandanti e pellegrini, che amano la terra che li porta, senza dimenticare la meta. La storia sacra è la storia dell’uomo, con le sue aspirazioni alla vita e alla dignità e la Risurrezione è il seme messianico gettato tra le radici delle attese umane.
A questo secondo aspetto è strettamente unito il terzo: la dimensione universale del cammino cristiano. Dire universalità, però, non è dire qualcosa di astratto ed evanescente, perché l’universalità cristiana è di carattere teologico e antropologico. Dire universalità significa mettere il baricentro non dentro i confini sacri del tempio o della legge, ma dentro le attese autentiche dei popoli e degli uomini: là dove la promessa di Dio è tanto più carica di senso in quanto più profondi e radicali sono i bisogni. Ce lo ricorda un versetto della prima pagina degli Atti, posto come perno centrale intorno al quale ruotano la struttura e il messaggio di tutto il libro: «Avrete forza dallo Spirito Santo che verrà su di voi, e mi sarete testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Questa ingiunzione di Gesù ai suoi mostra la comprensione che la Chiesa primitiva aveva di se stessa: essere testimone di un messaggio salvifico senza confini.
La tentazione costante dei credenti è la stessa di alcuni ebrei della prima ora, biasimati da Paolo: dividere il mondo in circoncisi e incirconcisi. Nella storia della Chiesa, l’appartenenza a una razza, a una cultura, a una tradizione… è stata spesso confusa con l’autentica via di salvezza. Proprio il libro degli Atti ci ricorda che Dio ha guidato la sua Chiesa per strade impensate, che soltanto la nostra pigrizia mentale ha potuto sbarrare a determinate categorie di persone. Dal capitolo sesto del libro degli Atti il Vangelo raggiunge i samaritani, e poi via via gli eunuchi, i centurioni romani, i pagani… senza lasciar fuori nessuno, perché la verità autentica è che «Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto. Questa è la Parola che egli ha inviato ai figli di Israele, recando la buona novella della pace, per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti» (At 10,34-36). Noi siamo avvezzi a dividere il mondo in giusti e ingiusti, pii e reprobi, intelligenti e ignoranti… La logica di Dio è una logica che non ci appartiene, perché, mentre noi separiamo e creiamo steccati, Dio dà senso a tutto ciò che esiste.
Di qui nasce il compito dei cristiani nel mondo, che è, poi, quello testimoniato dalla festa dell’ascensione. Come Cristo, con la sua ascensione al Padre, non è fuggito dal mondo e dall’uomo, ma li ha trasfigurati, così la via del credente non è la fuga o la paura del mondo, ma la sua trasformazione. Il cristiano è chiamato a scorgere i germogli pasquali che sbocciano qua e là nel cuore del creato e delle creature, perché l’ascensione nasconde il sogno di un mondo, non più sottoposto alla schiavitù della corruzione e della morte, ma al gemito di vita che esce dalle tombe. La pasqua e l’ascensione del Risorto è la chiamata a liberare l’annuncio evangelico dalle strettoie dove spesso lo abbiamo rinchiuso.
Il Vangelo: Lc 24,46-53
Il capitolo 24 di Luca mostra le donne, i due di Emmaus e i discepoli di fronte al sepolcro vuoto e all’assenza di Colui che pensavano di conoscere; essi si trovano davanti ad una situazione senza via d’uscita. La lettura degli eventi secondo criteri mondani lascia i credenti in un vicolo cieco e Luca lo mostra utilizzando il termine “aporia” (24,4) che, etimologicamente, significa proprio «senza passaggio», «senza via d’uscita» (a-poros). In questa situazione penosa, Luca indica però il tragitto, mostrando alla sua comunità come una strada senza uscita possa trasformarsi in una via di luce e di pienezza. E lo fa attraverso un itinerario che va dall’«assenza» (24,3) alla «benedizione» (24,51): dalla mancanza del corpo di Gesù a una nuova percezione, che lo riconosce ancora presente, ma in modo diverso.
All’inizio abbiamo il vuoto, la morte e la paura, che paralizzano e non permettono di andare oltre, di intraprendere nuovamente il cammino. Il passaggio che i discepoli sono chiamati a fare consiste proprio nel vivere l’esperienza della separazione non come una maledizione, ma come una possibilità nuova, una speranza. Luca congiunge intimamente distacco e benedizione – «e avvenne che, mentre egli li benediceva, si staccò da loro…» – quasi a tracciare le nuove coordinate della vita del credente: nell’assenza del Signore s’impara una sapienza nuova e un altro modo di leggere la Promessa di Dio.
Luca non permette ai discepoli di voltarsi indietro e non vuole che la chiesa sia una nostalgica custode del passato. In Gerusalemme Luca chiude la storia di Gesù, ma non chiude il cerchio. La storia iniziata a Gerusalemme e nel Tempio, nell’ora del sacrificio (Lc 1), diventa il cardine del mondo che sta per nascere e non la sua tomba, perché la storia di Gesù di Nazareth si apre al futuro di Dio e alla responsabilità dell’uomo. Del passato non si può fare a meno, perché custodisce il germe fondatore. E tuttavia il passato non deve divenire il sepolcro della speranza. La benedizione apre di nuovo la storia al futuro di Dio, divenendo vento gagliardo che si abbatte sulla casa dalle porte sbarrate per paura dei nemici (At 2), comunione che unisce i diversi in un cuor solo e un’anima sola (At 4), forza di guarigione per i malati e i tormentati (At 5), perdono per i propri persecutori (At 7), missione ai samaritani e ai gentili (At 8).
Una Chiesa che ha paura dell’uomo e che non vede i germogli che spuntano dal tronco secco è una Chiesa senza futuro. La Chiesa è sempre e dovunque portatrice di quella speranza messianica, che è più forte dei fatti, perché si affida alle certezze di Dio, più che alle proprie percezioni. La presenza dell’Altro dà agli apostoli la forza di affrontare gli eventi, sapendo che in essi riposa la forza vivificante dello Spirito. Sarà la bella notizia della prossima domenica di Pentecoste.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano