Commento alla Parola nella Solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria /B – 15 agosto 2024

Il tema della Festa

La convinzione che il corpo di Maria non abbia subìto la corruzione del sepolcro e sia stato assunto in cielo risale alle origini cristiane. Un apocrifo giudeo-cristiano del II – III sec., la Dormitio Mariae, esprime in forma fantasiosa, ma teologicamente densa, la fede della chiesa. Giovanni Damasceno leggeva l’assunzione di Maria come ascesa “accanto al trono regale del Figlio” e come benedizione per l’universo intero: “per gli angeli e le potenze che dominano il mondo, allegrezza ineffabile; per i patriarchi, diletto senza fine; per i giusti, gioia inesprimibile; per i profeti, esultanza perpetua”. In effetti, l’Assunzione è la festa della gioia, perché è la festa del compimento, dello sguardo fisso verso la mèta ultima, a cui l’uomo è stato chiamato. In questa prospettiva, Maria assunta in cielo è la metafora del destino del cristiano. Ciò che è avvenuto in lei ci riguarda tutti, personalmente.

Prima lettura: Ap 11,19a; 12,1-6a.10ab

Il brano dell’Apocalisse proposto dalla liturgia si apre con la presentazione di due “segni”: una donna e il drago. Il segno, nel linguaggio giovanneo, è una realtà rivelatrice, un modo di dire il mistero di Dio e il suo piano salvifico, che altrimenti sarebbero incomprensibili. I segni, dunque, non sono dati per essere guardati, ma per essere letti e interpretati.

La donna e il drago sono due archetipi, che troviamo già nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove, una di fronte all’altro si affrontano la donna Eva e il serpente antico. Da una parte sta l’umanità, rappresentata da Eva, la donna madre che partorisce figli, e dall’altra il nemico per eccellenza, che cerca in tutti i modi di distruggere l’essere umano, seme della donna. Il confronto drammatico tra l’umanità e il suo nemico è posto in particolare rilievo nella Genesi e nell’Apocalisse, ma non riguarda solo l’inizio e la fine. Inizio e fine sono i due poli che rappresentano la totalità, perché il conflitto è una costante che si ripete sempre di nuovo nella storia: mai uguale a se stesso, ma sempre decisivo e mortale. Anche sul piano della fede, la crescita non avviene senza lotta e la storia biblica lo dimostra.

La donna partorisce e il mostro vuole divorare il seme della donna. Come non vedere in questo linguaggio mitico una struttura fondamentale della storia di salvezza? Da una parte c’è la vita e tutto ciò che fiorisce e dall’altra l’istinto necrofilo di imperi e civiltà, singoli uomini e poteri demoniaci. Come avviene comunemente negli scritti apocalittici, la salvezza arriva mediante un intervento di Dio che salva il bambino partorito dalla donna e conduce la donna al sicuro, nel rifugio preparatole da Dio stesso nel deserto. Certo, ci troviamo di fronte a una lettura messianica della storia, perché nel bambino partorito dalla donna e salvato da Dio è stato giustamente visto il messia destinato a governare tutte le nazioni con scettro di ferro. E tuttavia, nella sorte del Messia e di sua madre, l’autore dell’Apocalisse legge la condizione umana ed ecclesiale. L’uomo, abbandonato a se stesso, soccomberebbe nella lotta contro le potenze del male che devastano l’universo. Una donna e un bambino sono certamente un’immagine appropriata della fragilità umana di fronte al male, ma sono anche le metafore delle possibilità che si aprono quando non ci si arrende di fronte al male, ma si combatte in nome di Dio e della vita. Un bambino è il simbolo vivente delle possibilità future e una donna – con la sua potenza creatrice – rimanda al mondo dei figli, il mondo di domani.

Anche il deserto è, allo stesso tempo, simbolo di provvisorietà e di sicurezza. Di provvisorietà per tutte le insidie che nasconde, ma anche di salvezza se pensiamo a Israele, a Elia e a tutti gli uomini che nel deserto hanno trovato rifugio di fronte alla malvagità umana. In effetti non siamo ancora nel tempo definitivo della salvezza; il nostro compito è far germogliare la terra di giustizia e verità. Il compimento non ci appartiene ancora. A noi spetta di camminare e lottare nell’insicurezza e nella precarietà, nella tentazione e nella mischia, ma con lo sguardo fisso alla mèta, e con la sicurezza che non saremo mai lasciati soli.

Il Vangelo: Lc 1,39-56

Il brano della visita di Maria a Elisabetta contiene una visione della storia della salvezza in totale sintonia con il discorso appena ascoltato dall’Apocalisse. Elisabetta saluta Maria come la madre del messia, e ne fa l’elogio più significativo che sia mai stato fatto della madre di Gesù: beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore. Di questo verso è possibile anche un’altra traduzione, che mette più in evidenza Maria come donna “credente”: beata colei che ha creduto: ciò che le è stato detto si compirà.  A differenza di Zaccaria, che aveva dubitato, la donna di Nazareth crede. La parola di Dio – che le era stata annunziata per mezzo dell’angelo – è divenuta per Maria il riferimento fondamentale dell’esistenza: è qui la sua grande fede. Avere fede non significa tutelarsi di fronte ai pericoli e alla lotta; il futuro non lo conosciamo e non ci appartiene, a tal punto che non possiamo fare progetti neanche per il domani. Avere fede significa innestarsi in una Relazione che dà senso ai successi e agli insuccessi, alle preoccupazioni e ai fallimenti, alle gioie e alle lacrime. La fede dà senso alla storia.

La ragione di tutto questo è espressa mirabilmente nel Magnificat, in cui per due volte ricorre il termine eleos / misericordia. L’eleos, nel linguaggio biblico, non è solo un sentimento, ma una decisione, una scelta, un agire. Il Dio misericordioso è il Dio che fa salvezza. Forse non è inutile ricordare che anche il Benedictus, l’altro canto famoso dei primi capitoli lucani, messo sulla bocca di Zaccaria, contiene l’eleos di Dio come motore della storia di salvezza. In questa luce tutto il cammino dell’uomo diventa manifestazione della fedeltà e della misericordia di Dio, quel Dio che tiene fede al suo patto. La storia di salvezza che Maria canta nel Magnificat non è altro che l’espressione di questa sua fede totale nel Dio che conduce le vicende umane – la sua e quella di tutti/e – verso la mèta che ci sta davanti.

In questo senso, Maria ci rappresenta, come dicevo all’inizio, e il canto del Magnificat lo mette in bella evidenza, concentrandosi, nella prima parte, sulla sua figura e su ciò che Dio ha operato in lei, mentre nella seconda parte lo sguardo si allarga ai poveri e agli umili, agli affamati e ai bisognosi. Questo permette di riflettere almeno su due aspetti della nostra fede. Il primo è che – grazie all’eleos che ha portato Dio a incarnarsi – la storia dell’uomo è diventata storia di Dio. Non c’è una storia umana in cui si è inserito il sacro. No, nel grembo di Maria, Dio ha assunto l’umanità e in questo modo non solo la storia di Dio è divenuta storia dell’uomo, ma la stessa storia umana – con le sue peripezie e i suoi naufragi – è divenuta storia di Dio. Indissolubilmente legate insieme. Il secondo aspetto scaturisce dal primo: per mezzo di Maria, Dio ci ha manifestato il senso del suo disegno salvifico e, in questo modo, ci ha donato anche la chiave per vivere il quotidiano, tra gratitudine e stupore. Sì, perché la chiave che ci apre al mistero è lo “stupore” e ciò che lo manifesta e lo sorregge è il “grazie”. Come è accaduto alla Figlia di Sion.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano