Commento alla Parola nella Solennità dell’Epifania del Signore/B

Il tema della Festa

Le tre letture della manifestazione del Signore Gesù stimolano a guardare avanti, ad alzare la testa, per scrutare nuove aurore, che rischiarano la storia degli uomini e dei popoli, nonostante resistenze e forze contrarie. La visione di Gerusalemme che, ammantata di luce, illumina il cammino dei popoli (prima lettura), i pagani chiamati a far parte dell’eredità dei santi (seconda lettura) e l’arrivo a Gerusalemme di stranieri alla ricerca del messia (terza lettura) sono testimonianze di un Vangelo che germoglia sempre nuove speranze di vita tra le fenditure di un’umanità imprigionata troppo spesso nella paura, nell’immobilismo e nella menzogna.

Prima lettura: Is 60,1-6

Più volte nella Bibbia – e soprattutto nel libro di Isaia – Gerusalemme viene rappresentata da una donna. Nel contesto della lettura odierna, essa viene invitata ad alzarsi dall’ignominia, a vestirsi di vesti sontuose, e a risplendere di luce. Il comando di ammantarsi di luce non è nuovo e sarà ripreso da Gesù stesso, come testimonia il Vangelo di Matteo, dove i discepoli sono invitati ad essere «luce del mondo», perché «una città posta sul monte» non può rimanere nascosta agli occhi dei popoli.

La luce richiama la salvezza e la vita; senza luce si cammina nelle tenebre e “venire alla luce” rappresenta il salto primordiale sulla scena della vita. Gerusalemme è chiamata a questo compito.

Lungo i secoli è avvenuto di frequente – e oggi accade ancora una volta – che Gerusalemme e la Palestina tutta siano sotto il segno della divisione e della guerra, con l’urgente necessità di ritrovare il suo passato splendore, la sua profonda dignità e la sua statura di città della pace.

Il testi di Isaia 60 ha come probabile sfondo il post-esilio, periodo nel quale Gerusalemme viene ricostruita. Nonostante il clima chiuso e integralista che andò man mano instaurandosi, l’autore mostra di avere uno sguardo aperto ed “ecumenico”, che non teme di spalancare le porte a categorie di persone considerate ai margini dalla comunità orante. Poche pagine prima – ad esempio – si parla degli stranieri e degli eunuchi, invitati ad entrare anch’essi nel tempio e nel patto santo: «e non dica lo straniero, che si è unito al Signore: “certamente il Signore mi separerà dal suo popolo”. E non dica l’eunuco: “Ecco io sono un legno secco”. Poiché così dice il Signore: “Agli eunuchi, che custodiscono i miei sabati… io darò loro nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome…”» (Is 56,3-5).

Nel capitolo 60 l’orizzonte si amplia e la storia di tutti i popoli viene vista alla luce di Gerusalemme, la città che Dio ha scelto come sua dimora. Nella tradizione biblica, la scelta di uno è sempre in vista di una missione a favore di tutti: Dio ha scelto Israele, per farne un popolo testimone di YHWH in mezzo alle genti; ha scelto Geremia per renderlo «profeta delle nazioni». Lo stesso avviene per Gerusalemme: essa è chiamata a testimoniare la luce di YHWH davanti a tutti i popoli, senza chiudersi in sé, erigendo muri di separazione.

Il Tritoisaia testimonia una luce che si diffonde oltre le mura della città santa, oltre i confini di Israele. L’alleanza che Dio ha voluto si espande oltre gli orizzonti angusti ideati dall’uomo, perché essa è una relazione di vita, ed è sempre viva, come la vita. L’alleanza è come l’amore: mai fissato una volta per tutte, mai esaurito in un’istituzione chiusa e bendata di fronte alla novità che irrompe.

La promessa di Dio è stupore sempre nuovo, ricerca e impulso.

I reduci del post-esilio, troppo preoccupati nella ricostruzione della propria identità, rischiano di chiudere gli occhi di fronte alla novità che urge. Il profeta li invita a guardare oltre i recinti e a comprendersi come uomini-in-relazione: con la promessa di Dio, anzitutto, e con i fatti della storia poi, per aprirli e farli germogliare. I popoli di Madian e della penisola arabica, i nabatei e i kedariti… rappresentano la grande schiera dei popoli stranieri chiamati da Dio a far parte dell’unica eterna alleanza. Questa è la volontà di YHWH che Gerusalemme è chiamata a testimoniare.

Assistiamo oggi, ancora una volta, alla smentita di questa promessa. Anche nel 2024 Gerusalemme è segno di contraddizione e di lotta e non di alleanza con/per tutti i popoli della terra. La pace universale che essa nella Bibbia simbolizza è posta profondamente in crisi. È necessaria per tutti una profonda autentica conversione al Progetto originario di Dio.

Il Vangelo: Mt 2,1-12

Leggendo la storia dei magi, si corre il rischio di soffermarsi su aspetti marginali, che appartengono al folklore e alla leggenda, più che all’essenza del Vangelo. In realtà, il testo di Matteo – attraverso elementi in parte simbolici e in parte leggendari – presenta ai lettori un problema estremamente serio e teologicamente complesso, già evidenziato dalla prima lettura: il mistero dell’accesso dei “lontani” alla salvezza, e il pericolo di cecità dei “vicini”.

L’evangelista non intende soddisfare la curiosità dei lettori e, per questa ragione, non si sofferma sull’identità dei personaggi, il loro numero, la strada percorsa… Vari elementi giocano a favore dell’identificazione dei magi con i pagani (la richiesta riguardo al re dei giudei, la designazione rabbinica dei gentili come “adoratori delle stelle”, la provenienza dall’oriente…), ma quello che soprattutto conta è il contrasto che Matteo fa emergere tra l’indifferenza e l’odio dei rappresentanti di Gerusalemme e il desiderio opposto dei pagani venuti da lontano per conoscere il messia.

Che tutta la popolazione di Gerusalemme abbia temuto, insieme a Erode (!), l’avvento di un nuovo re, è storicamente improponibile, vista la profonda diffidenza che gli ebrei avevano verso quell’idumeo scaltro e spietato, che era Erode. Che Matteo voglia qui prospettare la categoria teologica del rifiuto del Messia da parte di tutto Israele e la sua sostituzione con la chiesa dei gentili è teologicamente improponibile, data l’alta considerazione che il Primo Vangelo nutre per il ruolo permanente della Legge nel piano salvifico di Dio.

È più corretto pensare che, usando il linguaggio paradossale che gli è proprio, Matteo prospetti fin dall’inizio del suo Vangelo uno dei fili conduttori della sua teologia: mentre i lontani si avvicinano, i figli del Regno rischiano di rimanere fuori (cf. 8,11-12). In realtà, questo paradosso si è verificato spesso sia nella storia di Israele sia nella storia della chiesa di Cristo, e lo stesso Matteo non si esime dal mettere in guardia la sua comunità dal ripercorre le strade del formalismo religioso e della cecità, propri del fariseismo del suo tempo (cf. Mt 7,15-23 e 23,1-12). E tuttavia, la visuale positiva prevale su quella dell’infedeltà umana: non solo perché Gesù è veramente il figlio di Israele, ma perché la novità della salvezza che Gesù annuncia invade ogni uomo e ogni popolo. Ogni storia è guidata da Dio ed è attraversata dalla sua presenza, perché ogni uomo e ogni popolo è chiamato a riconoscere la sua stella, quella che Dio ha stabilito per lui, e che lui è chiamato a seguire per adorare il Signore. In questa luce, il diverso che arriva a Gerusalemme non è un nemico che va temuto, ma una speranza nuova. Servono occhi grandi, da bambino, perché ogni diversità testimonia lo spazio dell’agire di Dio e conferma che in ogni uomo, e in ogni angolo della terra, abita il Suo Logos.

Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano