Il tema della Festa
Con l’andare del tempo, il concetto di santità si è impoverito, anche concettualmente, fino a ridursi a una sorta di eroicità, appartenente a una corte di figure eccezionali, oggetto di venerazione e di improbabile imitazione. Le letture odierne ci presentano un’immagine della santità ben diversa da quella appena descritta. Nella Bibbia, la santità non è associata ai miracoli e neppure a un comportamento eroico ed eccezionale. Nella Bibbia il Santo è anzitutto Dio; anzi, Dio solo è il Santo, non perché onnipotente, ma perché – pur essendo Altro – ama l’essere umano di un amore fedele, che non viene meno anche di fronte all’infedeltà. Certo, tutti sono chiamati alla santità – siate santi perché Io, il Signore vostro Dio sono santo, recita Lev 19,2 – ma non si tratta di una chiamata a un ordine eroico, ma al rispetto delle vie di Dio e delle vie delle sorelle e dei fratelli. Le vie della santità sono molteplici, ma tutte sgorgano dalla relazione profonda che Dio stabilisce con gli uomini, trasformandoli in creature nuove, capaci di vivere – al pari del Santo – di alterità e amore.
Prima lettura: Ap 7,2-4.9-14
La prima lettura tratta dall’Apocalisse presenta due scene: la prima ambientata sulla terra e la seconda in cielo.
La prima scena rappresenta la terra minacciata da un pericolo: i venti, che possono abbattersi su di essa, devastando uomini e cose. Di fronte alla vicina devastazione, ecco che Dio ordina di porre il suo sigillo sulla fronte dei suoi servitori. Secondo la prassi antica, porre il sigillo sulla fronte è simbolo di proprietà e di preservazione: i segnati appartengono a Dio e da lui sono salvati. Anche in Egitto, al tempo dell’esodo, le case dei figli d’Israele furono preservate grazie al sigillo posto sulla porta. In una visione del profeta Ezechiele coloro che non si erano lasciati contaminare dall’idolatria furono segnati con la lettera tau. Prima che i venti si abbattano sulla terra, dunque, Dio pone un segno di appartenenza sulla fronte dei suoi fedeli. Sono 144.000, un numero che fa riferimento alle 12 tribù di Israele e ai 12 apostoli (12x12x1000), rappresentanti del popolo di Dio nella sua pienezza. Sono i “santi”, “tutti i santi”, sia dell’Antico come del Nuovo Testamento: coloro che hanno deciso di accogliere Dio e il suo amore, in una relazione indelebile, che fa di un popolo “il popolo di Dio” e di Dio “il Dio di quel popolo”.
La seconda scena è ambientata in cielo dove Giovanni vede «una moltitudine immensa che nessuno poteva contare». Probabilmente si tratta dello stesso popolo, nella sua incommensurabile entità escatologica, quella definitiva, della fine dei tempi, che non è in nostro potere. Perché i santi non appartengono a una classe, a una cultura, a una lingua… , e non abitano dentro i confini costruiti dalle decisioni umane, siano esse appartenenti a enti culturali o religiosi… I santi appartengono solo al mistero di Dio, che è insondabile. Si tratta della moltitudine dei poveri e degli afflitti, dei miti e dei puri di cuore, dei costruttori di pace e di giustizia, che vivono sotto ogni cielo. Per questa ragione, non è per niente casuale l’accostamento della festa di oggi con il ricordo dei defunti (che avverrà domani). Nella visuale cristiana santo è colui che muore per qualcuno, che muore per amore.
Il Vangelo: Mt 5,1-12a
Per ben nove volte risuona nel vangelo di oggi il termine makarioi / beati, seguito da categorie di persone che a prima vista sembrerebbero vivere in una situazione tutt’altro che beata. Siamo chiamati a comprendere bene questo accostamento, perché la beatitudine applicata a situazioni di indigenza umana rischia di creare un equivoco grande. L’attesa di un futuro risarcimento per i poveri, gli afflitti…. (nelle beatitudini i verbi sono per lo più al futuro) non rende il messaggio di Cristo un oppiaceo per il presente? Non si dovrebbero definire indegne dell’essere umano le situazioni di povertà e indigenza piuttosto che definirle portatrici di beatitudine?
Questa preoccupazione – affatto insolita, perché ha conosciuto anche delle malformazioni storiche dovute a un’ermeneutica equivoca del messaggio cristiano – mostra anzitutto un’errata comprensione del termine makarioi. Il genere letterario del macarismo è conosciuto sia nella tradizione ebraica che in quella greca. Nella Bibbia ebraica è testimoniato, ad esempio, dal Salmo 1, dove si parla della beatitudine dell’uomo «che non segue il consiglio degli empi…» o dal Sal 41 che testimonia la beatitudine dell’uomo «che ha cura del debole…», e da altri 23 passi del Salterio e soprattutto della letteratura sapienziale. Il macarismo è pure conosciuto nella tradizione greca, dove spesso sta ad indicare la condizione degli dèi o la qualifica di uomini che hanno particolari ricchezze esteriori e interiori.
Matteo legge la beatitudine nell’ottica del Regno annunciato da Gesù. Questo significa che il vangelo non assolutizza nessuna condizione storica e a nessuna connette indissolubilmente la gioia cristiana. L’assoluto per il cristianesimo non è la condizione economica o sociale in cui una persona si trova, ma il regno di Dio e la sua giustizia. In questa prospettiva, la beatitudine sugli ’anawîm contesta radicalmente le gerarchie umane, secondo le quali la felicità è indissolubilmente legata alla ricchezza e al potere e stabilisce un altro ordine, una situazione nuova, in cui al primo posto è Dio e la sua sapienza. Nel pensiero di Matteo l’avvento del Regno nella persona di Gesù capovolge le categorie della sapienza umana, secondo la quale i poveri, gli afflitti, i miti, i perseguitati sono dei perdenti. Matteo annuncia invece un capovolgimento, dovuto all’irruzione del mondo di Dio: i perdenti diventano i beneficiari della salvezza messianica. Si può ben dire che il fondamento della gioia dei poveri, degli afflitti, dei miti… non è la situazione che vivono, ma la speranza che il Regno proietta su di loro, perché Dio contesta e capovolge l’ordine del mondo, nel quale vigono le leggi delle tre S: soldi, sesso e successo.
Ed è proprio qui che il discorso sulla santità intreccia quello sulle beatitudini. Il mondo chiede ricchezza e forza, astuzia e arroganza… La santità nasce dalla consapevolezza che tutto è grazia e che il mondo se ne va, con i suoi idoli e i suoi miti, mentre rimane l’amore dei santi: di coloro che perdono la vita perché un fiore germogli tra i crepacci della storia. Essi ci insegnano a guardare la realtà con altri occhi, nella persuasione che la pace non scaturisce dalla menzogna e dal successo, ma dalla fede in un Progetto divino che viaggia sui sentieri dei miti e dei pacificatori, dei perseguitati e dei giusti, a qualunque popolo appartengano.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano