Commento alla Parola nella V Domenica di Pasqua /B

Il tema della Domenica

Una delle immagini più comuni e suggestive dell’esperienza cristiana è quella del cammino. Nel libro degli Atti, i cristiani sono definiti viandanti – quelli della via (At 9,2) – in sintonia con la via percorsa da Gesù durante la sua vita terrena, e soprattutto in sintonia con la via verso Gerusalemme, la via della croce. La stessa Bibbia ebraica aveva presentato il cammino del popolo nel deserto come una via di salvezza. Ma proprio l’esperienza biblica di Israele ci mostra che la liberazione sarebbe monca se non ci fosse un approdo. Nel piano di Dio il cammino nel deserto trova il suo ancoraggio nella terra e l’esperienza umana insegna che uno degli aneliti profondi dell’uomo è di avere una casa, una stabilità, un punto d’appoggio. “Colui che rimane” è una delle più belle definizioni di Dio che si trovano nella Bibbia, ma è anche l’aspirazione dell’uomo. È con questo importante tema che le letture di oggi invitano a confrontarsi.

Seconda lettura: 1 Gv 3,18-24

Essere dalla verità, che ricorre nella prima lettera di Giovanni, è un’espressione molto comune nella letteratura giovannea perché esprime la condizione del cristiano. Il significato tuttavia non è di immediata comprensione perché, nella nostra cultura, la verità esprime l’adeguamento del pensiero alla realtà, mentre la Bibbia identifica il termine aletheia / verità con il vocabolo ebraico ‘emet che significa  fedeltà. Dio è verace perché è fedele, come testimonia il libro del Deuteronomio: «Riconosci che YHWH tuo Dio è Dio; Dio fedele che mantiene la sua alleanza e la sua benevolenza per mille generazioni a quelli che lo amano e osservano i suoi comandamenti» (Dt 7,9). In un turbinio di infedeltà e di peccato da parte del popolo, Dio si presenta come colui che resta saldo nella sua alleanza, verace nelle sue promesse. Dio, insomma, è Colui che rimane.

La condizione umana, al contrario, è sempre descritta nella Bibbia come costituita da fragilità e instabilità. I Profeti e i Salmi, parlando dell’atteggiamento umano, lo descrivono provvisorio e labile come l’erba del campo, che al mattino è verde e alla sera secca, o come la rugiada che scompare al sorgere del sole. Anche oggi, l’essere umano è sempre più  proskairos / di un momento, incapace di durata, di perseveranza, di costruire una casa assolutamente stabile.

Convertirsi, allora, significa anzitutto radicarsi nella stabilità di Dio. Nelle categorie bibliche, fare affidamento sulla propria sicurezza o sulla certezza che può dare l’uomo è follia. Al re Acaz – che già aveva pensato ad assicurarsi l’alleanza della potenza assira nella guerra contro la Siria ed Efraim – il profeta Isaia ricorda che la sicurezza viene da Dio e non dai potenti: se non crederete, non avrete stabilità. La stabilità di un uomo, di una famiglia, di un regno, di una chiesa… non sta negli appoggi umani, ma nella fede in Dio. La sicurezza non può venire dall’uomo, che rimane argilla fragile anche con le armi in pugno. Avere fiducia in Dio è l’unica soluzione efficace contro la paura e contro i nemici: una soluzione ingenua dal punto di vista politico, ma non dal punto di vista della fede. Colui che crede sa distinguere la consistenza dall’apparenza e sa, soprattutto, che ogni soluzione umana rimane nell’ambito del provvisorio. Solo Dio è Colui che rimane.

Da questa Verità di Dio la lettera di Giovanni fa scaturire due conseguenze. La prima riguarda coloro che hanno la coscienza turbata: ad essi Giovanni ricorda che «Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa». Non si tratta di un invito all’inoperosità o al disimpegno morale. Significa solo che Dio è presente e scruta nel profondo, anche là dove il rigore morale e lo sforzo dell’uomo sono deficitari. Dio offrirà un approdo alla precarietà dell’opera umana.

La seconda conseguenza riguarda chi, invece, ha la coscienza tranquilla, senza rimpianti né condanne: ad essi Giovanni consiglia di avere audacia e confidenza davanti a Dio «e qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo ciò che gli è gradito». Anche qui bisogna entrare nel profondo del pensiero giovanneo: l’intenzione non è quella di presentare le opere umane come fonte della salvezza, ma piuttosto di rafforzare la comunione con Cristo mediante l’osservanza della sua Parola. È proprio in questo ambito che la comunità rischia il fallimento.

Il Vangelo: Gv 15,1-8

Il tema viene riproposto nel testamento di Gesù, costituito da quel lungo discorso che abbraccia quasi cinque capitoli (13-17) e che raccoglie le ultime volontà del maestro prima della sua partenza. «Rimanete in me!» è il comando di Gesù prima della morte. Alla fine del primo secolo, la comunità cristiana, che aveva probabilmente nell’apostolo Giovanni il suo padre fondatore, viveva una crisi non facile da definire, ma che certamente verteva sulla perseveranza negli insegnamenti di Gesù. «Volete andarvene anche voi?» aveva chiesto Gesù ai dodici dopo che molti altri discepoli si erano tirati indietro (Gv 6,66-67). Domanda che rivela un diffuso malessere.

A una comunità stanca di «rimanere», l’immagine della vigna certamente ricordava l’infedeltà del popolo di Israele, verso cui Dio si era prodigato con amore e passione, e che come risposta aveva invece prodotto uva acerba (Is 5). Ezechiele ne aveva fatto una descrizione appassionata: una vigna, «piantata presso le acque; era feconda, ricca di tralci, per l’abbondanza delle acque. Aveva rami forti, adatti per scettri da governatori; si elevava sublime tra il folto dei tralci; era appariscente per la sua elevatezza, per la moltitudine dei suoi rami. Ma è stata sradicata con furore e gettata a terra; il vento orientale ne ha seccato il frutto; i rami forti ne sono stati rotti e seccati, il fuoco li ha divorati. Ora è piantata nel deserto, in un suolo arido e assetato…» (Ez 19,10-12). È il rischio di ogni grande amore di perdere di vista la fonte sorgiva e di abbandonarsi a facili avventure, lontano da ciò che fa vivere.

Gesù richiama anzitutto il radicamento fondante, senza il quale si diventa sterili: «Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me». Ecco il primo fondamentale aspetto dell’impegno cristiano nel mondo: ritornare alla centralità di Dio e di Cristo. Tutto il resto va subordinato a questo recupero del centro, perché se Dio non è al centro non è da nessuna parte. Ritornare alla centralità di Dio e di Cristo significa ritornare all’essenziale, liberandosi di tutti gli orpelli che inaridiscono la fede. Ritornare alla sorgente prima di ogni amore e di ogni impegno significa tornare a cercare la consistenza in Lui, se non si vuole inaridire: «Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca».

Ma c’è anche un secondo aspetto, complementare al primo, che viene espresso nel versetto conclusivo: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate suoi discepoli». La gloria di Dio nella Bibbia esprime la sua presenza e questa presenza di Dio nel mondo è testimoniata dai frutti dei discepoli.  Paradossalmente si potrebbe dire che non è l’ateismo o l’azione di chi non crede a compromettere la presenza di Dio nel mondo, ma l’azione di chi crede. È l’ortoprassi dei discepoli a tenere viva la Presenza di Dio in mezzo agli uomini. Non è proprio questo lo scandalo della fede, ossia la contraddizione tra ciò che professiamo e ciò che siamo? La gloria di Dio risplende tra le volte delle cattedrali, ma se non parteciperemo alla fatica umana, se non faremo giustizia e pace nel mondo, se non difenderemo che è oppresso e non daremo pane all’affamato… la Shekinah si allontanerà dalla terra.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano