Il tema della Domenica
Vivere nella storia significa appartenere a una comunità di donne e uomini che ci hanno preceduto, piantando vigne e costruendo case, lottando per un pezzo di pane e per la giustizia tra gli esseri umani… L’uomo non può non tener conto di questa vita che è fin dal principio, di questa fedeltà al passato, a coloro che lo hanno preceduto, gli hanno aperto la strada e segnato il terreno. Non c’è futuro senza memoria di ciò che è stato, senza fedeltà alle proprie radici. Eppure ciascuno sa, per esperienza, che proprio la memoria abilita al futuro e alla novità. Perché, se eventi nuovi sono accaduti nel passato, essi possono accadere anche oggi. Lo stesso Isaia, rivolgendosi al suo popolo, ammoniva: «Non ricordate più le cose antiche e alle cose passate non ponete mente: ecco che io faccio una cosa nuova» (43,16-17). Questo spiega come sia poco confacente attribuire a Dio e alla sua chiesa un ruolo fisso di garanzia e di congelamento. La pasqua è la novità di Dio nel regno gelido della morte: le cose antiche sono passate: ecco ne sono nate delle nuove.
Seconda lettura: Ap 21,1-5a
La visione di Giovanni, nell’Apocalisse, riguarda proprio la novità di Dio, incarnata nella nuova Gerusalemme. Gerusalemme è il compendio delle speranze di Israele: la città santa per eccellenza, intimamente legata alla presenza di Dio e alla promessa davidica; rappresenta la legge, il tempio, l’adempimento della promessa. Nel corso della storia, più e più volte questa visione è stata messa in crisi: la città ha subìto più di trenta assedi ed eccidi orribili. D’altra parte, però, l’ebraismo e il cristianesimo hanno guardato a Gerusalemme come a una città simbolo della promessa perenne di Dio e, dunque, di novità e di vita. In mezzo alle alterne vicende della città, si sono fissati gli occhi sul futuro, a una restaurazione che oltrepassa la dimensione puramente terrena e in alcuni circoli religiosi s’ incontra così anche la speranza di una Gerusalemme conservata in cielo, che sarà resa visibile solo alla fine dei tempi. Un libro apocrifo – il 4 libro di Esdra – parla di un’apparizione della città che ora è invisibile e un altro apocrifo – il Testamento dei dodici Patriarchi – afferma che «i santi riposeranno in Eden e i giusti si rallegreranno nella nuova Gerusalemme».
È da questo flusso di speranze storiche che l’Apocalisse trae la sua ispirazione per cantare una «Gerusalemme nuova, che scende dal cielo, come una sposa adorna per il suo sposo». La città-sposa è metafora della novità di Cristo, della creazione nuova che l’avvento di Gesù ha significato sulla terra e nell’universo. Certo, parlando del mondo che verrà, della Gerusalemme nuova, o di cieli nuovi e terra nuova, sia il Primo che il Nuovo Testamento non intendono negare l’incrollabile fedeltà di Dio alla prima (e unica) creazione. Con la risurrezione, Gesù ha trasfigurato la vecchia creazione, ma non l’ha rinnegata. Dio è tenacemente fedele a ciò che ha creato. E, tuttavia, quanto è avvenuto nel giorno di Pasqua è totalmente nuovo, perché dice che l’incrollabile fedeltà di Dio alla sua promessa trova sempre strade nuove per arrivare all’uomo, e ora la strada si chiama Gesù messia, figlio dell’uomo e figlio di Dio. La risurrezione di Gesù segna una frattura nel vecchio mondo, che vive di se stesso e per se stesso. La risurrezione è la città nuova, dove ogni essere può trovare pace. Certo i germi della novità non sono visibili a occhio nudo, sia perché sono solo germi sia per la pochezza di chi è chiamato a farli crescere. E tuttavia esistono, ci sono, nascosti tra le macerie della città vecchia.
Si tratta di uomini e donne che si sono fatti solidali con la novità di Cristo e, abitando in questa o in quella città, come a ciascuno è toccato in sorte, «abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è terra straniera. Si sposano come tutti, generano figli, ma non espongono i neonati. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne… Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono poveri e arricchiscono molti; mancano di tutto e di tutto abbondano. Sono disprezzati, ma nel disprezzo acquistano gloria. Vengono oltraggiati e benedicono, sono insultati e rendono onore. Benché compiano il bene, vengono puniti come malfattori. Benché puniti, gioiscono, come se ricevessero la vita». Questo passaggio della Lettera a Diogneto mi sembra che esprima a meraviglia la novità di Cristo nella nuova Gerusalemme.
Il Vangelo: Gv 13,31-35
Una novità che viene ripresa nel Vangelo di Giovanni. L’accostamento tra la glorificazione di Gesù e il comandamento dell’amore può sembrare strano, ma solo a prima vista. Perché la gloria – nel Primo come nel Nuovo Testamento – è la manifestazione visibile del Dio invisibile. Quando, nel deserto, Mosè parla agli israeliti della manna che Dio avrebbe elargito all’indomani dice: «domani mattina vedrete la gloria del Signore». La gloria, dunque, manifesta la salvezza di Dio.
Si comprende allora come Gesù sia stato visto da Giovanni come l’incarnazione per eccellenza della gloria divina. Gesù è l’immagine del Dio invisibile che compie gesti di salvezza e di liberazione. E si comprende ancora come, per il Vangelo di Giovanni, il momento supremo della croce sia il momento della suprema glorificazione. Il dono che Gesù fa di se stesso è la manifestazione della potenza di Dio, del suo volere salvifico: la manifestazione della storia come storia di salvezza.
I discepoli di Cristo che, nell’assenza visibile del maestro, si amano gli uni gli altri, testimoniano la gloria di Dio manifestata nell’amore di Cristo per i suoi. «Come io vi ho amato» diventa, così, per il cristiano l’unico fondamento dell’amore.
E questo significa almeno tre cose: anzitutto che, senza Cristo, non possiamo andare al fratello perché la strada è ostruita dai nostri pregiudizi e dal nostro stesso io; in secondo luogo, che l’amore cristiano non sarà mai mercenario, mai condizionato dal vicendevole scambio; e, terzo, che l’amore cristiano non può ridursi a una compassione sentimentale e sterile, perché l’amore è fattivo o non è amore.
Un grande uomo e un grande scienziato, come Teilhard de Chardin ha lasciato scritto: «si rimane sempre sorpresi quando si vede con quale straordinaria cura Gesù raccomanda agli uomini di amarsi gli uni gli altri… Cosa vuol dire dunque quest’insistenza? Se non fosse in gioco nient’altro all’infuori di un interesse filantropico, di una diminuzione della sofferenza nel mondo, di un maggior benessere terreno, come si spiegherebbe la gravità del tono, le promesse e le minacce del Salvatore?… No, la fraternità cristiana non ha solo il compito di riparare le ingiustizie dell’egoismo e mitigare la pena delle ferite inferte dalla malizia degli uomini… La carità, unendo le anime nell’amore, le rende capaci di dar vita a una natura più elevata… Si potrebbe essere tentati di credere, a volte, che le virtù cristiane sono qualcosa di statico. La morale di Gesù sembra timida e insulsa a quelli che propugnano la lotta vigorosa e aggressiva per conquistare le cime verso le quali la vita ascende. Di fatto, invece, nessuno sforzo terrestre è più costruttivo, più progressivo di quello di Cristo. Non sarà la forza orgogliosa, ma la santità evangelica a salvaguardare e proseguire lo sforzo autentico dell’evoluzione».
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano