Il tema della Domenica
Il senso della vita – evocato già dalle letture della settimana scorsa – è anche al centro della riflessione di questa quinta domenica di quaresima. Lungo tutto il cammino quaresimale ci viene ripetuto che il senso di una vita è legato alla comunione dell’«io» e del «tu». Il futuro della nostra società – come quello di ogni essere umano – è annodato alla reciprocità e alla legge fondamentale che regola ogni rapporto umano: la coesistenza dei volti, il desiderio di assumere l’altro/a non nel possesso, ma nell’appartenenza, non nel dominio, nella prevaricazione e nella sopraffazione, ma nel desiderio di appartenere e di esserne responsabili. È in questa responsabilità reciproca che consiste l’alleanza richiamata nella prima lettura e l’ora evocata nel Vangelo che riporta le ultime parole di Gesù durante il suo ministero, prima della passione e della morte.
La prima lettura: Ger 31,31-34
Parlare di alleanza significa parlare di relazione, responsabilità, appartenenza e, specificatamente, di quel particolare legame che Dio volle stringere con l’umanità intera per mezzo di Israele e, nella pienezza dei tempi, per mezzo di Gesù Cristo, suo Figlio. Il termine ebraico berît non indica di per sé un rapporto bilaterale, ma l’impegno che un determinato soggetto assume di fronte ad un altro, e per questo richiama anche il significato di promessa. E anche quando il termine berît passò ad indicare un patto bilaterale, con reciproci diritti e doveri, la Bibbia ha sempre accentuato la fedeltà incrollabile di Dio, che si esprime anche davanti al tradimento dell’uomo. Non è difficile comprenderne la ragione. Leggendo, infatti, il racconto della stipulazione dell’alleanza tra Dio e Israele sul monte Sinai, si nota che la rottura avvenne subito dopo la conclusione del patto e la consegna della Torah (cf. Es 32). Ma, nonostante ciò, Dio rinnova l’alleanza e riscrive le leggi (Es 34; Dt 10,1-4). Fin dall’inizio, insomma, l’impegno di Dio è senza pentimento: un dono imperituro, perché al centro non è l’agire dell’uomo, costantemente segnato dall’infedeltà, ma l’agire di Dio. «I doni di Dio sono senza pentimento», dirà Paolo in Rm 11,29. Vivere l’alleanza, dunque, significa sapere che, nonostante i nostri cammini di tenebra, Qualcuno ha scelto di essere-con-noi e per-noi.
Da queste premesse si può facilmente comprendere come l’alleanza descritta da Geremia non sia una categoria teologica qualsiasi, ma quella che ha dato senso alla storia di Israele e dà ancora senso alla storia di tutti e di ciascuno. Da Abramo all’Egitto, fino alla liberazione e al cammino nel deserto… tutto è avvenuto in vista di quella peculiare relazione di appartenenza, che si chiama alleanza. E si comprende anche come lo stesso Gesù, nel momento supremo della sua vita, abbia voluto esprimere il suo dono d’amore per tutti gli uomini negli stessi termini: «questo è il mio sangue dell’alleanza» (Mc 14,24). Vivere l’alleanza, allora, significa celebrare la comunione e la vita, nella libertà e nella gioia.
Eppure l’alleanza, come ogni legame, rischia di diventare (ed è diventata spesso nella storia) un fardello, uno statuto formale e rigido: non più relazione gioiosa e viva, ma dovere; non più amore instancabile, ma consuetudine. Come l’amore, del resto, che ne è la linfa. Anche per il popolo che Dio aveva scelto l’alleanza, con l’andare del tempo, perse la sua vitalità, trasformandosi in legame esteriore, convenzionale. Il famoso testo di Ger 31 denuncia questa degenerazione, ma allo stesso tempo e con la stessa energia annuncia un’alleanza nuova, ossia un modo nuovo di vivere l’alleanza, non più segnato da esteriorità e formalismo, ma da interiorità e autenticità. Il testo di Ger 31 afferma che questa nuova alleanza non significa nuova Legge o nuovi precetti da osservare, ma un cuore nuovo, una reciprocità nuova. Si annuncia, cioè, un nuovo modo di rapportarsi, dove conoscersi non è un esercizio di vuoto e superficiale conformismo, ma assunzione di responsabilità. Perché ci conosciamo solo quando diventiamo responsabili gli uni degli altri.
Il Vangelo: Gv 12,20-33
Il brano del Vangelo, con i greci che vogliono “vedere” Gesù, ci porta ad approfondire il discorso di quella relazione fondante che dà senso alla vita di alleanza. Il desiderio di questi proseliti tradisce una domanda profonda, che riguarda appunto la ricerca di una vita nuova. In maniera analoga Nicodemo aveva manifestato curiosità per la “nuova nascita” e la Samaritana aveva chiesto un’ “acqua” che disseta veramente: tutte aspettative che hanno a che fare con il significato stesso della vita umana.
La risposta di Gesù, infatti, fa riferimento alla sua ora e, dunque, alla morte e risurrezione, il momento culminante del cammino, in cui trova senso la sua uscita dal Padre e la sua missione nel mondo. Siamo davanti al nucleo centrale della teologia di Giovanni, che ruota attorno al mistero della morte come glorificazione: «adesso la mia anima è turbata, e che cosa devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora: Padre glorifica il tuo nome!» (Gv 12,27-28).
La comprensione giovannea di Dio e della sua salvezza trova il suo cardine irrevocabile nell’esaltazione di Gesù: la croce è una croce gloriosa, un vessillo regale: è un trono e la crocifissione una intronizzazione. Aveva detto, infatti, Gesù: «quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me», indicando «di quale morte doveva morire» (12,32-33).
Sembrerebbe una teologia alienante, e invece nasconde un segreto, perché ci svela che il negativo della vita e persino la morte trovano senso nell’amore: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, non porta frutto, ma se muore diventa fecondo». Paradossalmente, non è la morte a rendere il chicco di grano sterile e impotente, ma una vita inutile. E questo significa che, per un credente, la fecondità e la riuscita non viaggiano sulle ali del successo, di una vita che sfoggia sicurezza di sé e follower in quantità. La salvezza non cammina sulla menzogna dell’eterna giovinezza, felicità e salute, né sullo spettacolo dell’efficienza. Si spezzano le catene inique e si sconfigge il negativo della vita solo quando si è capaci di perdere la vita per qualcuno, offrendo sé stessi. Chi crede non fugge di fronte alla morte, ma la affronta con l’unica arma capace di ridurla all’impotenza: la forza dell’amore. Chi crede sa che la via sulla quale cammina la verità di Dio, non è la via dei meschini tornaconti personali. Dio non tutela uomini e istituzioni edificate sulla propria sopravvivenza, e la storia di Israele e della chiesa lo mostrano a sufficienza. È nel segreto della croce che germoglia il senso della vita. È un messaggio che prepara gli eventi della prossima domenica di passione, quando avrà inizio la settimana santa.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano