Il tema della Domenica
A prima vista, i testi di questa domenica potrebbero sembrare estranei alla cultura moderna e alla sensibilità del nostro tempo. Il problema della purità e dell’impurità rituale, infatti, pur sussistendo ancora in diverse culture, non qualifica in maniera rilevante la religiosità e la vita sociale dell’ occidente, almeno nei termini posti dalle letture bibliche. E tuttavia, a ben guardare, ci si accorge come anche questa Parola sia veramente attuale e come dietro tanti tabù, passati e presenti, si nascondano situazioni umane tragiche, su cui la Parola di oggi invita a riflettere.
La prima lettura: Lv 13,1-2.45-46
La legge sui lebbrosi appartiene a un complesso di istruzioni sulla purità e impurità contenute nei capitoli 11-15 del Levitico. In questo contesto, si fa una rassegna di sfere che appartengono alla vita privata e sociale e che ricadono sotto regole e interdizioni. Si parla degli animali puri e impuri, del parto, dell’essere umano afflitto da diverse malattie della pelle ecc. La normativa corrisponde a un sentire comune, che si incontra presso diverse popolazioni, e ha come scopo di proteggere la vita sociale da quanto viene considerato come insolito, minaccioso, contagioso o ignoto. Da tutto ciò la comunità deve proteggersi, tenendo lontano il pericolo. È ovvio che questa impurità non appartiene al mondo della colpa volontaria, perché alcuni gesti e situazioni sono legati a doveri quotidiani, necessari alla convivenza (per esempio, il parto o il contatto con i corpi dei defunti). Chi, però, ne è afflitto ha l’obbligo di tenersi lontano dalla comunità e dal culto, perché – a prescindere dalla colpa – l’impurità compromette in qualche modo la relazione con Dio e con gli uomini.
In questo contesto, non è difficile comprendere la pagina della legge sui lebbrosi, costretti a portare vesti strappate e capo scoperto, a coprirsi la barba e a gridare: «immondo!»: tutti segni di lutto, che rappresentano una situazione di morte da cui i viventi dovevano tenersi lontani. Nella mentalità antica, con “lebbra” si indicava una serie di affezioni cutanee che per il loro carattere contagioso erano particolarmente pericolose a livello sociale. Per questo il lebbroso aveva il dovere di tenersi fuori dell’accampamento, lontano dal mondo.
A motivo di ciò, si comprende anche come il lebbroso sia diventato, fino ad oggi, un emblema di tutti gli esseri che, per una ragione o per l’altra, sono costretti a restare ai margini. Il lebbroso è diventato il simbolo di chi attenta alla sicurezza dell’“accampamento”. I meccanismi con cui gli uomini in passato venivano segregati possono sembrarci rudimentali, ma se togliamo quella patina di perbenismo sociale e religioso con cui ci travestiamo, dobbiamo riconoscere che le discriminazioni continuano ad avere un peso rilevante anche nelle moderne democrazie e che i meccanismi di segregazione sono divenuti sempre più raffinati.
La cosiddetta modernità si adopera con ogni mezzo per tenere fuori dell’accampamento coloro che essa ritiene “impuri” e fa del tutto per erigere steccati di leggi e leggine che escludono. È in questo contesto che scende la parola del vangelo: non per mettere in discussione le leggi necessarie alla vita sociale, ma per smascherare le menzogne che si annidano dentro l’accampamento, là dove si pensa che i problemi sono ovviamente altrove e i pericoli sono rappresentati da coloro che vivono “fuori”.
Il Vangelo: Mc 1,40-45
Il vangelo di Marco aveva già messo in contatto Gesù con gli indemoniati e i malati (cf. le due domeniche precedenti). Ora è la volta dei lebbrosi: una categoria particolare di infermi, che – lo abbiamo detto – evoca non solo un sentimento di ripugnanza, ma anche un particolare problema sociale. È strano che il lebbroso si presenti spontaneamente, data la segregazione in cui era obbligato a vivere, ma non c’è dubbio che Marco voglia mostrare come l’annuncio di Gesù arrivi a tutti, anche a quelli “che-sono-fuori”. Infatti il brano pone una stretta connessione tra il vangelo annunciato da
Gesù «in tutta la Galilea» (1,39) e l’arrivo del lebbroso (1,40). A livello di redazione, dunque, il lebbroso si avvicina perché ode l’annuncio di Gesù e conosce la particolare fama di liberazione che accompagna la sua azione. L’osservazione non è di poco conto. Un uomo segregato e reietto trova nel messaggio e nell’agire di Gesù una speranza nuova per sé e per tutti coloro che sono costretti a vivere fuori dell’accampamento.
La domanda non è la guarigione, ma la purificazione: «se tu vuoi, puoi purificarmi!». L’affezione della lebbra segregava l’uomo o la donna che ne erano affetti non solo dalla comunità, ma anche da Dio: la sfera religiosa gli era interdetta e, spesso, la lebbra viene evocata nella Bibbia come un castigo di Dio. A ragione di ciò ne erano stati colpiti anche la sorella di Mosè (Nm 12) e il re Ozia (2Cr 26). Chiedendo la purificazione, il lebbroso non chiede solo di essere reintegrato nella comunità dei fratelli, ma anche nella comunione con Dio. Niente di strano che anch’egli considerasse la sua malattia come una forma di rigetto non solo da parte degli uomini, ma di Dio stesso.
Alla domanda del lebbroso, Gesù risponde anzitutto con un moto di collera (altre versioni attribuiscono a Gesù un “moto di compassione”, ma è più probabile che qualche copista abbia cambiato l’inspiegabile ira con la più plausibile compassione). L’ira di Gesù fa difficoltà, perché non se ne comprende la ragione. Gesù è sdegnato verso il lebbroso? Oppure il suo sdegno ha origine dalla notorietà che si diffonde sempre più e diventa sempre più ambigua? Forse la spiegazione è un’altra. Potrebbe trattarsi di una reazione analoga a quella che Gesù prova davanti all’indemoniato nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,25): una collera provocata dal regno del male e della morte, che tengono gli esseri umani schiavi e segregati. È l’indignazione verso tutto ciò che imprigiona l’essere umano. In ogni caso, alla supplica del lebbroso, Gesù risponde con un gesto e con una parola: «Lo voglio; sii purificato!». Toccando il lebbroso, Gesù non ha paura di contaminarsi: il suo tocco è un tocco salvifico che reintegra l’uomo nell’accampamento, restituendogli la dignità di uomo, in relazione con Dio e con la comunità dei fratelli. L’isolamento è ormai concluso, grazie a colui che non ha paura di avvicinarsi agli intoccabili.
La conclusione dell’episodio presenta una serie di eventi alquanto strani e, per certi versi, inspiegabili. C’è un’improvvisa indignazione di Gesù verso il lebbroso, con l’ordine di tener segreto l’accaduto e di mostrarsi invece al sacerdote secondo quanto previsto dalla legge; c’è la disobbedienza del lebbroso che incomincia a “divulgare la Parola” e la fuga di Gesù dalla folla che ormai lo cerca in ogni luogo. A questa serie di eventi, piuttosto singolari nella loro concatenazione logica, sono state date diverse spiegazioni, ma il dato che soggiace a tutto è, a mio parere, la presentazione del mistero del messia, così lontano dalle attese umane. Gesù insegna ma non è uno scriba, guarisce ma non è un santone, accoglie gli emarginati ma non è un sobillatore, parla di Dio e del suo Regno ma non è un sognatore… Chi è veramente Gesù? I personaggi del racconto dovranno trovare una risposta, ma la stessa domanda è rivolta a tutti i lettori.
Don Massimo Grilli,
Docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano