Commento alla Parola nella VI Domenica del Tempo Ordinario /C – 16 febbraio 2025

Il tema della Domenica

Ci sono parole bibliche che ci colpiscono come pietre. A prima vista sembrano sassi destinati a rovinare e distruggere, ma uno sguardo più profondo vi scorge una sapienza che, se sovverte schemi mentali consolidati e perbenismi rassodati, lo fa per smascherare parvenze e illusioni, e per aprire alla verità, tutta intera. Alcune di queste parole sono presenti nelle letture odierne. «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo», con cui si apre la lettura di Geremia, e «guai a voi» del vangelo lucano sono verità scomode, che facciamo fatica ad accettare, ma se andiamo a fondo si rivelano feconde.

Siamo cresciuti con la fiducia piena nelle possibilità dell’uomo, chiamato a progettare, costruire, plasmare il mondo e la vita con la sua intelligenza e le sue mani, procurandosi benessere e ricchezza… Eppure, avvertiamo ogni giorno di più che la fiducia nelle possibilità umane è giunta ormai al limite e che proprio la fiducia riposta in questo o quel progetto, in questo o quell’uomo rischia di renderci naufraghi sballottati dalle onde, alla ricerca del proprio pezzo di legno a cui aggrapparsi. Qual è la verità? La Parola di oggi è un invito a riscoprire la nostra condizione umana e la verità di Dio sulla nostra vita.

Prima lettura: Ger 17,5-8

Nei pochi versetti del profeta Geremia risalta una contrapposizione radicale edificata sul verbo ebraico batah che esprime l’idea di sicurezza, fiducia piena, abbandono assoluto. È da qui che bisogna partire per comprendere «maledetto l’uomo che confida nell’uomo» e il suo contrapposto «benedetto l’uomo che confida nel Signore». Il forte contrasto tra l’uomo maledetto e benedetto è fatto a partire dal fondamento su cui poggiamo la fiducia. Non si tratta di un disprezzo dell’uomo e della sua fatica, ma di una costatazione fondamentale, che sta alla base della sapienza biblica: l’uomo non è Dio e le sue costruzioni sono impastate di fragilità (carne). L’uomo che impianta su un altro essere umano la sua ragion d’essere, disprezzando la sapienza divina, non è capace di costruirsi e di costruire sulla roccia, perché solo Dio dà stabilità assoluta. Geremia ha di fronte una situazione concreta: Israele, che si appoggia ai potenti di turno e pone la sua totale fiducia nell’intelligenza (cuore) umana. Ma il discorso è più generale, perché si tratta di idoli che, in ogni tempo e in ogni luogo, si ripropongono come il supremo riferimento dell’esistenza. In fondo Geremia dice che solo Dio rimane, mentre noi ce ne andiamo.

La pagina profetica ha di mira una situazione concreta, in cui una nazione e un popolo vogliono fare a meno di Dio, senza tener conto di essere adamah, “argilla” fragile. Ancora una volta bisogna ribadire che non si vuole adoperare il pessimo trucco di umiliare l’uomo per affermare Dio. No! chi fa questo non comprende né la verità dell’uomo né quella di Dio, perché tutta la Bibbia testimonia che Dio ha voluto essere per l’uomo con una scelta totale e radicale, senza finzioni né pentimenti. Si tratta, invece, di costruire il futuro sapendo che il riconoscimento del proprio limite è la suprema verità su cui poter fondare una città a misura d’uomo. Si tratta di riconoscere che Dio non è il Dio geloso, come nel mito di Prometeo, ma è il Dio che chiede all’uomo una responsabilità adulta, un essere-per-gli-altri autentico e gratuito: il solo antidoto al limite umano. Un uomo che pretende per sé una fede cieca e idolatrica, rivendicando il diritto supremo di umiliare ed esaltare, servendosi degli uomini secondo il proprio capriccio, costruirà una società ignobile e ingiusta basata sulla menzogna e sul potere distruttore.

Non è difficile scoprire come, anche oggi, la verità di questo discorso sia da prendere terribilmente sul serio. Soprattutto oggi, dopo le illusioni di poter costruire un mondo fondato nella giustizia e nel diritto. Organizzazioni colossali e strutture avveniristiche attirano sempre l’attenzione e aprono l’uomo alla fiducia, ma non è difficile poi riscontrare che la speranza non viaggia sulla strada delle esibizioni di potenza, ma su quelle della dignità e del rispetto personale, della gratuità e dell’amore.

Beato l’uomo che poggia il suo essere e il suo agire in Dio – afferma Geremia in sintonia con il primo salmo del salterio – perché avrà sempre linfa e forza di vita, «come un albero piantato lungo un corso d’acqua». Nel riconoscimento di Dio l’uomo trova la verità di sé e di tutte le sue opere. È la corresponsabilità il vero motore del progresso. Dio e l’uomo, insieme, responsabili del destino dell’universo.

Il Vangelo: Lc 6,17.20-26

Le beatitudini e i “guai!” si inseriscono a meraviglia nel tema appena abbozzato, perché Luca radica il discorso sui beni nel contesto di un discorso sull’idolatria. È un discorso di fede su ciò che costituisce il fondamento di una vita: un discorso su Dio e sull’uomo, sulle cose di Dio e le cose dell’uomo. In parallelismo antitetico Luca pone i poveri e i ricchi, gli affamati e i sazi, i piangenti e i soddisfatti, i rifiutati e gli integrati. Bisogna subito dire che il “guai!” non è un genere di condanna, come “beati” non esprime la beatificazione di uno stato socio-economico. Si tratta invece di un’affermazione chiara sul capovolgimento dei criteri con cui si giudicano uomini e situazioni umane. I credenti sono introdotti in un’altra ottica di valutazione rispetto a quella del mondo.

Luca àncora il discorso sui poveri e sui ricchi a una prospettiva globale e profonda che riguarda il senso stesso della vita: i discepoli sono a servizio di Dio e del suo Regno oppure sono asserviti ai loro beni? Il criterio basico del discorso sulle ricchezze è il posto primario dato al «Regno di Dio» (Lc 12,31): l’uso corretto dei beni è il segno del primato di Dio e del suo Regno; l’accumulo e l’uso malvagio dei beni è un segno di incredulità. Lo stesso termine “mammona”, che Luca utilizza spesso e volentieri, mette in evidenza la parentela tra l’uso della ricchezza e la fede: ’aman (“essere stabile”, “poggiare”) appartiene al vocabolario della fede. Ritorna il discorso antico-testamentario sul fondamento della vita. In questa ottica il modello lucano offre molto materiale per interpretare e agire sulla situazione attuale. Si tratta di riproporre il discorso sui beni abbandonando le piste fuorvianti dell’ascetismo e dello stoicismo. Luca non offre certamente carte costituzionali sull’organizzazione delle nazioni e sui rapporti tra ricchi e poveri. Ma non lascia neppure il campo completamente vuoto, perché chiama i credenti e le chiese a testimoniare che il fondamento della loro esistenza non sono le ricchezze, ma Dio stesso. E lo fa con inaudito vigore, sbarazzando anzitutto il terreno da alcune vecchie interpretazioni ascetiche di distacco interiore, che avevano un sapore più stoico che evangelico. Costringe inoltre le chiese a rileggere il problema dell’uso dei beni in chiave di fedeltà al vangelo di Cristo.

Si comprende allora come povertà e ricchezza in Luca abbiano uno spessore umano e come la kôinônia, la “comunione dei beni”, di cui si parla negli Atti degli Apostoli, venga presentata come segno della comunione spirituale. Questa non esiste senza quella. I richiami all’elemosina sono una costante del vangelo di Luca e questo significa che il pericolo reale della ricchezza non è solo quello di attentare al primato del Regno, ma anche quello di creare divisioni nel popolo di Dio (cf. At 6,1). A questo pericolo Luca contrappone un assioma ferreo: la ricchezza che non viene posta a servizio dei poveri è un «mammona iniquo», segno di ingiustizia e di peccato (cf. Lc 16,9-13). È in questo contesto che si inserisce il discorso sulla vera comunione spirituale, che non può prescindere dalla condivisione delle ricchezze. Un popolo di Dio che deve contare i suoi poveri è un popolo che non crede.

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano