Il tema della Domenica
Le letture di questa sesta domenica dopo Pasqua costituiscono, in qualche modo, l’approdo ideale del cammino svolto durante le settimane precedenti, perché, dopo la fede, la rivelazione, la verità, la fedeltà… la Prima lettera e il Vangelo di Giovanni arrivano all’amore, epilogo e apice della vita cristiana. Di Dio sono state date tante definizioni e lo stesso Giovanni ha cercato di avvicinarsi al mistero definendo Dio come Spirito (Gv 4,24), luce (1Gv 1,5), ecc. Ma la definizione più celebre e più suggestiva è senz’altro «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). E tuttavia, nessuna verità rischia di essere tanto fraintesa e vaporosa, perché l’amore è sempre esposto all’equivoco, come testimoniano le diverse scelte della vita che si fanno derivare tutte dall’amore. Giovanni traccia, comunque, alcune coordinate che non lasciano dubbi sulla specificità dell’amore cristiano e sul suo significato autentico. Proviamo a recuperarle nelle letture di questo giorno.
Seconda lettura: 1 Gv 4,7-10
Giovanni dice anzitutto che l’amore di Dio si manifesta nella storia e, segnatamente, in un evento, che i testimoni hanno visto con i loro occhi, toccato con le loro mani, udito con i loro orecchi: il Verbo della vita, incarnato per la salvezza dell’essere umano. Per due volte in pochi versetti la lettera richiama l’invio del Figlio come prova dell’amore di Dio per l’uomo, e l’espressione che lo enuncia – «Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita» (1 Gv 4,9) – è molto vicina all’altra, fatta da Gesù a Nicodemo, nel Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito…» (Gv 3,16). L’uomo è diventato l’assoluto di Dio; Dio ha sposato l’essere umano, ha sposato il mondo; è entrato consapevolmente nel negativo della vita con la sola forza capace di redimerlo: l’amore. L’amore di Dio, dunque, si è manifestato in un cammino di abbassamento verso il mondo, e non attraverso il rigetto o attraverso la fuga da un mondo perverso e indegno. Questa è la prima verità cristiana: Dio s’immerge nella storia del mondo e dell’uomo, l’assume, senza temerla e senza averne ribrezzo.
C’è una seconda verità che risalta dalla prima lettera di Giovanni: l’amore di Dio è gratuito e non è mosso da tornaconto personale. Noi conosciamo un amore che si riversa sui nostri simili: parenti, amici, vicini… Cerchiamo chi ci somiglia. La psicologia ha pure mostrato come spesso l’amore umano sia solo uno strumento di possesso e di dominio; manca di purezza e gratuità, cerca il contraccambio. L’amore di Dio è diverso: «In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi». Non è eros e neppure philia: non è mosso dall’attrazione o dal desiderio del potere, e neppure da una vincolante, necessaria reciprocità. È un amore che non ama secondo i meriti né secondo la corrispondenza: manda la sua pioggia sui giusti e sugli ingiusti, accoglie il figlio ribelle, offre il boccone dell’amicizia a colui che sta per tradire. È dono e non conquista umana.
Una terza verità sull’amore di Dio è conseguenza delle prime due: l’amore di Dio è un amore che libera e fa vivere. La prima lettera esprime tutto questo dicendo che Dio ci ha amato “per espiare i nostri peccati e perché noi avessimo la vita”. Il desiderio primordiale dell’uomo è quello di essere amato. Per vivere l’uomo ha bisogno che qualcuno gli dica: «tu esisti», e Gabriel Marcel lo ha egregiamente espresso affermando che amare qualcuno equivale a dirgli: «tu non morirai». Questo, che è vero per ogni amore autentico, è eminentemente vero per l’amore divino: Dio ci libera dalla morte e dalla paura di divenire indegni del suo amore. Non c’è più niente e nessuno che possa condannare l’uomo, neppure il suo peccato, perché Dio si è messo dalla sua parte, in una creazione libera, dove il peccato e la morte non hanno più potere di distruggere.
Il Vangelo: Gv 15,9-17
Questo amore divino, manifestato in Gesù, è posto nel vangelo come distintivo dei discepoli di Cristo: «Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ma anche questo mandato può essere frainteso, depauperato della sua ricchezza e svuotato del suo carattere sovversivo. Per non incorrere in questi pericoli e coglierne la straordinaria novità, bisogna sottolineare ancora tre aspetti.
Anzitutto, l’amore cristiano ha come modello Gesù stesso: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come Io vi ho amati». Non si tratta di un ideale filantropico, ma teologico, perché Gesù – nel dono della sua vita – ne è la ragione ultima. In questo senso il comandamento è nuovo: non perché prima non esistesse un comando di amarsi vicendevolmente; al contrario, l’amore del prossimo (compreso il nemico) era conosciuto nell’ebraismo (cf. Dt 22,1-4) e – in un modo o nell’altro – non era estraneo anche ad altre nobili filosofie e religioni. La novità cristiana è espressa dall’aggettivo greco kainos che – rispetto a naos – sta ad indicare qualcosa di “qualitativamente nuovo”. È il dono del Figlio che fonda la qualità e la novità dell’amore vicendevole cristiano. Un amore tutt’altro che riconducibile a un puro fatto sentimentale, perché si fonda sul dono che Dio ha fatto del suo Figlio.
C’è un secondo aspetto dell’amore vicendevole sottolineato da Giovanni, ed è questo: l’amore di Cristo mette in crisi il potere e la convenienza come elementi statutari dei rapporti umani; Gesù contesta l’arroganza come base dei rapporti reciproci. Tra i popoli come tra gli individui, nella chiesa come nella famiglia… le relazioni sono spesso contrassegnate dal possesso e dal potere egemonico del più forte. Gesù contesta la volontà di potenza come legge di costruzione dell’edificio umano, di qualsiasi edificio umano.
La terza caratteristica della comunione cristiana è che essa non è solo affettiva, ma effettiva. Gli Atti degli Apostoli, nel presentare la prima comunità cristiana come modello, la presentano come una comunità che pratica una koinônia tangibile, concreta, lontana da chimere e parole vuote. Lo aveva capito Agostino che, commentando l’amore fino alla morte, richiesto al cristiano, affermava: «Ecco da dove prende avvio la carità. Se ancora non sei disposto a morire per il fratello, sii disposto almeno a dare al fratello un poco dei tuoi beni. La carità scuota il tuo cuore così che tu non rechi soccorso con iattanza d’animo ma con interiore abbondanza di misericordia; allora la tua attenzione si volgerà sopra chi si trova nel bisogno. Se non riesci infatti a dare il superfluo al fratello, come potrai dare per lui la vita?» (Ep. di Giov., Om. V, 12). Forse è proprio qui il punto: riempirsi la bocca con espressioni di amore, bontà e benevolenza diventa un esercizio vuoto, se non sappiamo usare le cose come segno di comunione e non di divisione. È una delle grandi testimonianze d’amore a cui è chiamata oggi la comunità cristiana.
Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano