Commento alla Parola nella VI Domenica di Pasqua/C – 25 maggio 2025

Il tema della Domenica

La lettura tratta dall’Apocalisse presenta una città pacificata – la nuova Gerusalemme – descritta nelle sue componenti fondamentali.  Si tratta non solo della città, ovviamente, ma di tutti/e coloro che la abitano. Tanti elementi simbolici per presentare la nuova situazione dell’essere umano e la sua nuova relazione con Dio, introdotta dalla morte e risurrezione dell’Agnello. Una condizione che viene ripresa nel testo evangelico, nelle parole che Gesù lascia come testamento ai suoi, prima della sua partenza definitiva. Parole intense, che aprono lo spazio all’attesa, alla speranza che anche nella città dell’uomo possano crescere germogli di consolazione e di pace, e che anche la Gerusalemme terrestre possa finalmente godere della pace che ha in Dio la sua origine e il suo fondamento.

Seconda lettura: Ap 21,10-14.22-23

L’immagine della Gerusalemme santa, che scende dal cielo, ammantata della gloria di Dio, potrebbe far pensare a un altro mondo, diverso da quello in cui vivono gli esseri umani e in cui si trova, invece, la vecchia Gerusalemme, con il suo splendore e la sua miseria, la sua gioia e le sue lacrime, la sua pace e la sua violenza… Nella storia cristiana, l’immagine della nuova Gerusalemme ha fatto anche pensare alla contrapposizione tra ciò che è nuovo e ciò che è antico, tra ciò che appartiene al passato e ciò che invece è presente, tra l’antica alleanza ormai estinta e la nuova, in vigore… In verità, nessuna di queste supposizioni è vera. Bisogna fare attenzione alla concezione neoplatonica che ha inficiato tante verità cristiane e che porta a separare il mondo dello spirito e quello della carne umana.

Né Giovanni né Paolo, con l’annuncio della Gerusalemme celeste intendono alludere a un «altro» mondo, lontano dal nostro, in una sorta di dualismo evasivo. L’«altro mondo» non è altro che la trasfigurazione del «nostro mondo». Parlando del mondo che verrà, della Gerusalemme nuova o di cieli nuovi e terra nuova, il libro di Isaia (Is 65,17; 66,22) e quello dell’Apocalisse non intendono negare l’incrollabile fedeltà di Dio alla prima e unica creazione, come testimonia il Sal 132: «Il Signore ha giurato a Davide e non ritratterà la sua parola… Il Signore ha scelto Sion, l’ha voluta per sua dimora: “questo è il mio riposo per sempre, qui abiterò perché l’ho desiderato”».

Parlando di «nuova alleanza», la Bibbia non intende negare l’incrollabile fedeltà di Dio a quella antica. Quando Dio promette, non si pente: la sua promessa rimane, nonostante l’infedeltà umana. Lo stesso Paolo, parlando della “Gerusalemme in alto”, non intende contrapporre l’alleanza antica con Israele e la nuova in Cristo Gesù, ma semplicemente affermare la nuova situazione creatasi con la risurrezione a riguardo dei cristiani provenienti dal paganesimo. La risurrezione di Cristo ha inaugurato il tempo della Gerusalemme escatologica, in cui i credenti pagani entrano nell’alleanza grazie alla fede, e non all’osservanza delle prescrizioni mosaiche. Paolo, dunque, non vuole in nessun modo contrapporre il patto sinaitico a quello stabilito in Cristo, ma piuttosto recuperare le comunità etnico-cristiane nella tradizione di Israele. Cristo, con la sua risurrezione, ha dato inizio a una nuova creazione, della quale fanno parte giudei e gentili, non più estranei gli uni agli altri e concorrenti, ma pacificati, con i muri della separazione abbattuti da Cristo. La nuova Gerusalemme è, insieme, la città della promessa divina e dell’impegno umano: in essa vivranno gomito a gomito uomini che finora erano stati nemici e concorrenti, perché in essa non esistono più «né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna», perché tutti sono «una sola persona in Cristo Gesù» e tutti sono «discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3,28-29).

Il Vangelo: Gv 14,23-29

La promessa di Dio che rimane è il punto fermo anche della parola del Vangelo. Il contesto in cui Gesù pronuncia quanto ci viene proposto dal Vangelo di oggi è assolutamente decisivo per la sua comprensione. Si tratta dell’ultimo lungo discorso, che avviene nella notte, prima della partenza definitiva di Gesù dai suoi. La notte è il tempo del buio, dell’angoscia, ma anche del riposo e dell’intimità. Prima della sua ora, Gesù rivolge per l’ultima volta ai suoi discepoli parole molto intime: per confortarli e sorreggerli, rassicurarli e spronarli. Il contesto della partenza offre un ulteriore motivo di riflessione, perché la situazione di partenza o di morte è il momento dei ricordi, ma anche delle consegne, delle volontà ultime che si vorrebbe rimanessero per sempre. In questa luce si comprende meglio il testo di Giovanni che ci sta davanti, anche tenendo presente il discorso sulla città di Dio, che i credenti sono chiamati a testimoniare in mezzo agli uomini.

Anzitutto Gesù invita i suoi a leggere l’assenza non come una disgrazia, ma come un modo diverso di essere presenti: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui». È interessante osservare che, in questo luogo, Giovanni non utilizza il verbo menein / “rimanere” per dire che il Padre e Gesù rimarranno presso il discepolo che osserva la Parola, ma l’espressione “prendere dimora” (monè). Il termine greco monè (da cui “monastero”) è lo spazio dove ciascuno trova il posto a lui confacente: uno spazio di gratuità e di libertà, di intimità e di pace. Se Gesù se ne va, non potrà più essere certamente dove i discepoli lo vedevano prima, ma sarà certamente – insieme al Padre – ovunque là dove essi si troveranno: sulle strade polverose dell’oriente e nelle città ellenistiche dell’occidente, dove si costruiranno palazzi e case, dove abiterà qualcuno/a che si adopera e combatte per la giustizia e la pace. I discepoli saranno costruttori del mondo, nella serena fiducia che lì dove due o tre osservano la Parola, là Dio pone la sua dimora.

Un altro aspetto emerge prepotentemente dal testo: il tema del Paraclito che non solo avrà la funzione di consolare e dare forza ai discepoli smarriti dopo la morte di Gesù, ma anche quello di far ricordare e far capire il suo messaggio. Romano Guardini aveva compreso molto bene la funzione indispensabile dello Spirito nella chiesa, quando, sul letto di morte, lo invocava a rimanere tra noi, nei nostri ambienti che – diceva – «rimbombano di vuoto, quasi tu fossi lontano». Solo lo Spirito offre ai credenti la chiave per discernere le fattezze di Dio nella città degli uomini. Perché la fede non è occuparsi d’altro, ma occuparsi «altrimenti». Il credente è immerso nei problemi che travagliano l’uomo, stando al cospetto di Dio. Proprio come si legge nella lettera di Giacomo: «Questa è la religiosità pura e senza macchia davanti a Dio Padre: visitare gli orfani e le vedove nella loro afflizione e custodirsi immuni dalla corruzione del mondo» (1,27).

La pace / shalôm che Gesù dona, subito dopo aver evocato lo Spirito, non è semplicemente un augurio o una promessa, ma un pegno e un impegno, che i discepoli dovranno custodire e far crescere, perché le città abitate dagli uomini non somiglino sempre più a dei cimiteri costruiti da una sapienza mortale – modellata dall’homo homini lupus – ma alla Gerusalemme che scende dal cielo, «vestita come una sposa adorna per il suo sposo».

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano