Commento alla Parola nella XII Domenica del Tempo Ordinario /B – 16 giugno 2024

Il tema della Domenica

Una fragile barchetta in mezzo a un mare in tempesta è una metafora forte ed efficace. Anche oggi, ma soprattutto nell’antichità quando, nei miti delle origini, il mare rappresentava le forze ostili e demoniache contro le quali l’uomo lotta spesso inutilmente. Nell’Enuma Elish (Quando in alto), uno dei grandi poemi mesopotamici di secoli anteriori alla Bibbia, il dio Marduk – dio supremo del panteon babilonese – è chiamato a soggiogare la dea Tiamat, che rappresenta l’abisso marino.

Anche la Bibbia conosce questo retroterra simbolico, e le letture di questa domenica ne sono una prova, e tuttavia la concezione teologica che si sprigiona dal testo sacro è ben lontana dalle mitologie antiche. Alla debolezza dell’uomo sballottato dalle onde, la Bibbia risponde con la visione di un Dio personale e di un uomo che, mediante la fede, trova il senso autentico dell’esistenza umana. Nella letteratura biblica l’uomo e Dio, la creatura e il Creatore, stanno uno di fronte all’altro, non in atteggiamento di sfida o di sprezzante superiorità, come nella mitologia del tempo, ma nell’atteggiamento di accoglienza e di reciprocità, perché Dio si è fatto compagno dell’essere umano nella traversata del mare in tempesta e l’uomo non è più solo.

Prima lettura: Gb 38,1.8-11

Il brano tratto dal libro di Giobbe appartiene al grande discorso divino, che troneggia a conclusione del libro, racchiudendone, in qualche modo, la chiave teologica. Davanti al lamento di Giobbe, alla sua radicale questione sul perché della sofferenza innocente, Dio risponde con un lungo discorso, che abbraccia i capitoli 38 e 39 del libro. L’intervento di Dio non è però una difesa personale o un’apologia della sua opera, ma una provocazione a riflettere sul mondo come “mistero”. Di fronte al mistero, l’uomo non può non avvertire la sua profonda inadeguatezza. C’è un mondo che solo Dio sa decifrare. È questo il senso dell’intervento di Dio a conclusione del libro di Giobbe.

Nel brano proposto dalla prima lettura, gli interrogativi che provocano Giobbe riguardano la creazione. Dio prende l’uomo Giobbe per mano e lo conduce all’interno del creato facendogli riconoscere il suo limite invalicabile. Costretto a viaggiare entro i limiti che gli sono propri, l’essere umano non è capace di abbracciare i confini dello spazio e del tempo. La stessa presentazione di Dio, che risponde a Giobbe di mezzo al turbine, diventa l’emblema della trascendenza di Dio, che sorpassa la statura umana. L’uomo Giobbe si trova di fronte al «Totalmente Altro», che lo apostrofa ricordandogli la sua limitata sapienza e la sua limitata potenza. Il mare arrogante diventa un argomento per dimostrare l’infinita superiorità di Dio di fronte ai mezzi posseduti dall’uomo. Chi, se non Dio, può rinserrare il mare nel suo alveo, limitandone i movimenti? Chi può rinchiuderlo perché non debordi, distruggendo uomini e cose? Le immagini sono plastiche: le porte, i chiavistelli…, che rinchiudono il mare, possono sembrare immagini infantili, ma attraverso la forza dirompente dei simboli, la freschezza del messaggio arriva anche all’uomo moderno: solo Dio ha sottomesso l’orgogliosa potenza dell’oceano, perché solo lui ne è capace.

E, tuttavia, bisogna fare attenzione a non fraintenderne il senso perché, se da una parte queste immagini hanno la specifica funzione di condurre l’uomo a riconoscere il proprio limite, dall’altra vogliono presentare una sapienza divina che sta prima dell’uomo e non lo abbandona in balìa degli elementi distruttivi. Nel momento iniziale del lungo discorso, Dio apostrofa Giobbe, dicendo: chi vuole oscurare il consiglio con parole insipienti? Frase misteriosa, in certo senso, ma il termine ebraico ‘esa – reso generalmente con consiglio – indica di per sé il piano sapiente di Dio, il progetto che si va realizzando secondo il suo volere. Esiste una Sapienza che precede i nostri ragionamenti, uno sguardo che vede oltre le mete anguste dell’essere umano. Se i conti non tornano, è perché lo sguardo dell’uomo ha un perimetro circoscritto, oltre il quale non può spingersi. Ma se l’uomo abbandona la sua sufficienza, rimettendosi alla Sapienza divina che lo precede, si rende subito conto che nell’apparente coacervo di forze impazzite, che sembra governare la storia personale di ciascuno e la storia del mondo, esiste una Parola che dispone gli eventi secondo un ordine che non è alla portata dell’uomo, è vero, ma non per questo è meno reale, perché si tratta di un’altra saggezza, che l’uomo è invitato a scoprire e ad adorare.

Il Vangelo: Mc 4,35-41

Il racconto della tempesta sedata, raccontato da Marco, è colorito e abbonda di particolari, ma nella sua vivacità nasconde una penetrante verità che ci aiuta ad approfondire il discorso appena concluso con il testo di Giobbe. Rispetto al testo parallelo di Matteo, Marco ha una particolarità importante, che mette in luce anche il suo peculiare intento teologico. Mentre l’evangelista Matteo, dopo la tempesta e prima dell’intervento di Gesù, pone il rimprovero sulla poca fede dei discepoli, Marco ha una sequenza più logica: prima la tempesta, poi l’intervento e, infine, il rimprovero. Questa concatenazione abbastanza lineare, che prima elimina il pericolo e poi lo spiega, mostra che l’attenzione di Marco è soprattutto sulla cristologia: Gesù domina la tempesta, che stava per inghiottire tutti nel suo ventre di morte, e apre gli occhi dei discepoli al riconoscimento della sua identità. Questi si erano rivolti a lui chiamandolo “maestro”: «Maestro, non t’importa che moriamo?». Gesù mostra con il suo gesto di non essere semplicemente un maestro, ma il Signore che, con la potenza di Dio, lotta e vince il mostro marino (Sal 89) e domina le forze del male. Il mare in tempesta rappresenta la potenza demoniaca e Marco lo mostra mediante il verbo utilizzato da Gesù per sedare la tempesta. Il verbo phimoô / càlmati, con il quale Gesù mette a tacere il mare, è lo stesso verbo che ricorre al momento di scacciare i demoni (Mc 1,25). In fondo, è proprio qui la ragion d’essere della nostra fede: essere cristiani significa sperare l’impossibile, non in forza di un utopico ottimismo antropologico e neppure in forza di un’assoluta fiducia nella scienza, ma a motivo della potenza messianica del Cristo.

Lo spessore cristologico del brano non si ferma però qui. Con la paura dei discepoli e il rimprovero di Gesù, Marco intende mostrare che il luogo proprio della fede non è il tempo di bonaccia, ma la tempesta. La nostra fede – diceva Mazzolari – «non ci garantisce l’immunità da qualsiasi prova di corpo e di anima: anzi, poiché ci salda in una più vera e completa umanità, ci getta ove la corrente è più forte… Ci allarmiamo appena le onde s’increspano e la barca sbanda. Non la bonaccia, ma la tempesta è il tempo del cristiano; non la sanità ma la malattia; non il successo, ma le persecuzioni… Il patteggiare per avere un po’ di bonaccia non è dello stile cristiano, il quale comporta o l’appello pressante e persino sgarbato al maestro che dorme, oppure il remare duro e silenzioso per tener fronte alla tempesta, in nome di colui che, pur essendo addormentato, resta con noi e ci assicura, con la sua sola presenza, che alla fine la vittoria sarà di chi ha creduto e sperato».

In questa pagina coraggiosa, Mazzolari coglie il senso profondo del racconto marciano. In tempi di grossi turbamenti che ci tengono con il fiato sospeso, nell’incertezza del futuro, la fede non offre certezze rassicuranti. È facile allora soccombere alla tentazione di venire a patti. Si ha paura di perdere privilegi e il patteggiamento sembra più idoneo, le armi della diplomazia e del compromesso più sicure. La tempesta fa paura e il sangue del martirio resta un ricordo lontano. Ma non sono queste le vie del cristiano. Il discepolo è colui che scommette sulla presenza e sulla sapienza di Dio a cui obbediscono anche le più grosse tempeste della storia. Certo, una visione del genere non è conforme alla sapienza di questo mondo. Ma la croce non spinge il cristiano su questa strada? La fede nel Cristo crocifisso non è chiamata a testimoniare che la debolezza di Dio è più forte della potere degli uomini?

Don Massimo Grilli,
Professore emerito della Pontificia Università Gregoriana e Responsabile del Servizio per l’Apostolato Biblico Diocesano